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Ognuno di noi ha uno scopo per essere al mondo, ma ci sono due scopi che tutti noi condividiamo e che non possiamo eludere: il primo è Contribuire e il secondo è Crescere.
Questo articolo si focalizza sul Crescere, sul perché è così importante e, soprattutto, perché non possiamo evitarlo se non a carissimo prezzo.
Ogni attività umana è finalizzata alla crescita. Tutto ciò che facciamo cela questa comune “missione”, coinvolgendoci in percorsi, obiettivi, sfide, avventure, progetti che hanno l’apparente scopo di avvicinarci a qualcosa a cui teniamo, ma che in realtà sono finalizzate ad elevare gli standard qualitativi della nostra esistenza. Solitamente, non è a questo che miriamo. Noi miriamo ad avere di più, ma per riuscirci dobbiamo mettere in campo risorse ed affrontare sfide attraverso le quali ci rafforziamo come individui.
Se di primo acchito questo può apparire come un discorso filosofico, vediamo di calarlo in un contesto più concreto, come quello lavorativo. Se mi leggi è probabile che tu sia un imprenditore, un manager o un professionista; allora, cerca di vedere oltre il prodotto o il servizio che offri e prova a capire cosa vuole veramente un cliente da te. Ci sono due possibilità: o vuole risolvere un problema o desidera spingersi oltre il suo status quo e vede nel tuo prodotto/servizio il mezzo attraverso il quale raggiungere uno o l’altro di questi due obiettivi.
Un’impresa, che almeno fino ad oggi è ancora guidata da esseri umani, persegue esattamente la stessa finalità degli individui che vi operano: crescere… e nel processo far crescere le persone che vi lavorano. Il problema è che si è così focalizzati sui risultati da realizzare che si tiene in poco o nessun conto il processo. Tuttavia, se vogliamo veder crescere l’azienda, occorre lavorare su entrambi i fronti, che possiamo banalmente semplificare in ciò che si vuole avere e ciò che si vuole essere.
Proprio perché la crescita si muove su due fronti, essa non è affatto un percorso lineare. Non mi è mai capitato, però, di vedere un solo grafico che mostrasse un qualsivoglia trend di crescita (soprattutto del fatturato, ma anche di organico, di nuovi mercati, di investimenti, ecc.) che non fosse lineare, a prescindere dalla tipologia. Tutti, indistintamente, si limitano a rappresentare un avanzamento, ovvero arretramento, nel tempo della quantità realizzata di qualsiasi cosa si stia misurando. Niente dicono, invece, dell’avanzamento qualitativo dell’attività con riferimento alle risorse umane e/o non.
In realtà, qualora eventuali scarsi risultati siano imputabili a limitazioni strutturali o tecnologiche, abbastanza agevolmente si riconosce in quello il “tarlo” che rallenta la crescita e altrettanto facilmente si interviene; ma se il problema è riconducibile a limitazioni che si palesano a livello di cultura aziendale, di abilità sociali, di atteggiamento mentale, di competenze emotive, ecc., cioè quegli aspetti che alla fine determinano la qualità del processo e che di conseguenza ricadono poi sui risultati che si ottengono, le misure intraprese si limitano solitamente a qualche palliativo.
Il fatto è che senza una crescita evolutiva (qualitativa, di processo), ad un certo punto si ferma anche la crescita espansiva (quantitativa, legata ai risultati)… e viceversa. Le due cose devono viaggiare in parallelo per rafforzarsi a vicenda, l’avere (espansione) e l’essere (evoluzione) sono intrinsecamente legati fra loro e occorre intervenire saggiamente su entrambe.
I seguenti grafici illustrano questo processo.
Nel grafico a sinistra puoi vedere una crescita per espansione, che è quella più semplice e anche più comune. La sua caratteristica è che si focalizza sull’ottenere di più di ciò che già si HA: più fatturato, più macchinari, più visibilità, più competitività, più prodotti, ecc. La finalità è quella di “puntellare”l’azienda per renderla più solida, più stabile e più appetibile per il mercato. Non è solo opportuno, ma è una necessità… che viene però paradossalmente limitata e penalizzata proprio dalla tendenza a focalizzarsi eccessivamente su questa crescita senza considerare il contesto in cui ciò avviene.
Così come non si può inserire il motore di un bolide da corsa in un’utilitaria perché la struttura di quest’ultima non è in grado di sostenere tanta potenza, allo stesso modo un’azienda non può sostenere una crescita espansiva continua senza prima creare i presupposti per cui ciò possa avvenire: ad un certo punto la crescita si arresta o frena considerevolmente in attesa di un cambiamento. Limitarsi ad un rafforzamento strutturale è del tutto insufficiente perché, riprendendo la metafora dell’auto, non puoi nemmeno mettere un pivellino dietro il volante del suddetto bolide.
Da un punto di vista aziendale, il “pilota” corrisponde all’insieme delle risorse umane che vi operano, non soltanto i titolari o i dirigenti, che comunque hanno la responsabilità di guidare il cambiamento. Ed è a questo livello che si gioca tutto. Il “campionato” in cui militano oggi le aziende è cosa molto diversa rispetto ad anche solo dieci anni fa e a questa velocità fra cinque anni, cioè domani, sarà nuovamente un altro mondo, dove l’aspetto tecnico, quello a cui si sono limitate la stragrande maggioranza delle imprese finora, dovrà forzatamente integrarsi con una maggiore crescita ad un altro livello, anche e soprattutto personale (quindi emotiva) degli addetti.
È altrettanto vero che, come mostra il grafico a destra, non funziona nemmeno l’evoluzione senza espansione. Qualsiasi processo (tendente all’evoluzione) deve poggiare su dei risultati (tendenti all’espansione), altrimenti si blocca: sarebbe come usare un campione mondiale di F1 per tagliare l’erba del giardino con un tosaerba che monta un motore da bolide. La crescita c’è, ma è fine a se stessa e conseguentemente improduttiva.
È necessario uscire da questa visione monodimensionale della crescita aziendale ed accedere ad una visione bidimensionale, come mostra il seguente grafico. Quella che viene chiamata Intelligenza Sistemica ha proprio lo scopo di agevolare questo “sacro” connubio tra Espansione ed Evoluzione in modo armonico al fine di produrre i migliori frutti e consentire all’azienda di competere in modo efficace in questo mercato estremamente fluido e difficile da interpretare… coi vecchi strumenti, almeno.
Dinamiche finanziarie in azienda - Qualche considerazione utile
Scritto da Dr. Riccardo BordignonNel nostro precedente articolo, attraverso un semplicissimo esempio, abbiamo evidenziato come le dinamiche economiche e quelle finanziarie, benché intrecciate, spesso abbiano caratteristiche e tempistiche differenti.
A voler puntualizzare un po’ meglio, se da un lato le dinamiche economiche sono le dinamiche che dovrebbero garantire la sopravvivenza nel tempo dell’azienda perché hanno a che fare con la capacità della stessa di generare reddito e, in ultima istanza, di creare autofinanziamento per la società, dall’altro l’azienda entra in crisi sempre per mancanza di liquidità.
Si comprende, quindi, come tale mancanza di liquidità possa generalmente derivare da:
- Una gestione economica non profittevole che, di conseguenza, nel medio-lungo termine genera una mancanza di liquidità dovuta a perdite;
- Una non corretta o, nei casi peggiori la mancanza, gestione finanziaria equilibrata.
Ecco allora qualche informazione utile per la gestione della tesoreria (la finanza aziendale quotidiana).
Il primissimo elemento a cui prestare attenzione è la coerenza tra i tempi di incasso dei ricavi (incassi da clienti) ed i tempi di pagamento dei costi (pagamenti ai fornitori).
E’ evidente che se siamo in presenza di uno sbilanciamento tra queste due partite (i tempi di incasso sono maggiori dei tempi di pagamento) l’azienda si troverà in perenne stato di crisi di liquidità a cui dovrà far fronte. Normalmente per far fronte a tale tipo di sbilanciamento si ricorre all’utilizzo di credito bancario attraverso gli affidamenti autoliquidanti (linee di salvo buon fine e linee di anticipo fatture) o attraverso fidi di cassa (un piccolo polmone finanziario che le banche mettono a disposizione proprio per sopperire ad improvvisi e imprevisti sbilanciamenti tra entrate e uscite per l’azienda).
L’utilizzo del credito bancario attraverso tali linee di affidamento è normale e spesso molto comodo ma dobbiamo sempre tenere a mente che ha un costo e che tale costo ha un impatto non solo in termini finanziari immediati (gli interessi e le commissioni bancarie si pagano a breve) ma anche in termini economici (il profitto aziendale si riduce).
Un altro elemento che molto spesso si sottovaluta o si gestisce in modo un po’ superficiale è il Magazzino.
La gestione del magazzino, che esso sia costituito da materie prime, semilavorati o merci/prodotti finiti da vendere, è una gestione importantissima perché parte delle risorse finanziarie sono investite proprio in questo comparto (infatti si tratta di una delle poste del Capitale Circolante ed il termine ci sta proprio ad indicare come il magazzino sia un investimento di capitale).
Avere un magazzino è sicuramente utile e, molte volte, indispensabile perché:
- Avere a disposizione un certo livello di materie prime o di prodotti permette all’azienda di far fronte a richieste di lavoro/vendita con tempi rapidi e la velocità di risposta alle richieste del mercato è spesso un fattore importante per avere la meglio su aziende concorrenti;
- Avere a disposizione un certo livello di magazzino consente una migliore pianificazione del lavoro da parte dell’azienda, senza che essa sia condizionata, se non in misura marginale, dai tempi di fornitura da parte dei fornitori;
- Spesso il magazzino consente anche di far fronte con un certo livello di rapidità (e di soddisfazione per il cliente finale) a richieste di intervento per guasti e/o malfunzionamenti e la rapidità/qualità in termini di assistenza è un fattore fondamentale per la fidelizzazione dei clienti e la buona pubblicità che questi possono fare all’azienda.
D’altra parte, però, avere il magazzino materie prime/prodotti comporta anche notevoli svantaggi:
- Il magazzino sono risorse finanziarie immobilizzate per un certo tempo (l’azienda ha acquistato o prodotto e ha messo in stock) e, quindi, ha utilizzato soldi che avrebbero potuto essere utilizzati per pagare qualcos’altro;
- Il magazzino è costituito da cose che possono diventare obsolete o possono deperire e quando questo accade spesso dobbiamo far fronte sia ad una perdita finanziaria (devo spendere ulteriori soldi per il ripristino o, peggio, non riesco più a venderle e quindi ad incassare i soldi immobilizzati) sia ad una perdita economica (in Conto Economico maggiori costi per il rispristino o minori ricavi di vendita o, nello Stato Patrimoniale, la svalutazione del magazzino stesso);
- La gestione di un magazzino comporta normalmente dei costi (e quindi anche delle uscite finanziarie) maggiori rispetto alla scelta di non avere alcun magazzino. Si pensi, ad esempio, al costo delle aree di immagazzinamento (superficie, attrezzature, riscaldamento/raffrescamento delle aree, costi per la messa in sicurezza, costi assicurativi etc..), ai costi di movimentazione e di logistica etc…;
Ci si potrebbe soffermare moltissimo su questo tema ma non è l’obiettivo di questo articolo. Tuttavia, l’importanza della gestione del magazzino e del suo impatto finanziario (ma anche organizzativo) è indiscutibile.
Si pensi che la “produzione snella” giapponese nasce in Toyota, in prima battuta, per gestire l’organizzazione della produzione cercando di limitare gli svantaggi e gli impatti finanziari del magazzino attraverso l’utilizzo del sistema di fornitura just in time.
Crediti, debiti commerciali e rimanenze/scorte sono poste del capitale circolante dell’azienda e la loro configurazione, la loro dinamica nel corso del tempo, mai statica, contribuisce anch’essa alla capacità o alla difficoltà da parte dell’azienda di far fronte alle proprie obbligazioni di pagamento.
Ma certamente vi sono anche altri elementi che concorrono ad influenzare la dinamica finanziaria …. proveremo ad esaminarne qualcuno in uno dei prossimi articoli.
La FIDUCIA è alla base di qualsiasi relazione umana. Molto semplicemente, senza fiducia non esiste relazione. Essere degni di fiducia, però, non significa molto se il nostro interlocutore non “percepisce” che si può fidare di noi.
Lavorando su 3 specifiche aree della tua personalità, chiunque si fiderà di te.
Qualunque sia l’area della tua vita in cui operi, laddove ci sono relazioni (praticamente ovunque!) la fiducia è un elemento fondamentale. E se anche, per assurdo, tu non avessi nessuno con cui rapportarti, rimani comunque “tu”, poiché se non riesci a fidarti di te, finirai nello stesso posto in cui si trovano tutti quelli che non riescono a trasmettere fiducia agli altri, cioè da nessuna parte. Inutile dire che difficilmente troverai chi si fida di te se per primo non ti fidi di te stesso e non c’è modo di nasconderlo perché diffidenza e sfiducia trasudano da ogni poro del nostro corpo.
La cosa positiva di tutto questo è che, in quanto esseri umani e “sistemi”, rispondiamo tutti in maniera univoca alle sollecitazioni esterne. Tuttavia, il fatto che tutti rispondiamo a certi stimoli, non significa che reagiamo ad essi allo stesso modo. Poniamo l’amore, ad esempio. Anche se mi rapporto in modo aperto, sincero, disponibile ed amorevole con una persona, la sua reazione sarà fortemente condizionata da passate esperienze che, se negative, provocherà una risposta anche aggressiva, dovuta ad un banale meccanismo di difesa.
Lo stesso vale per la fiducia. Se “invii” forti segnali di correttezza, di onestà, di disponibilità, il tuo interlocutore risponderà immancabilmente a questi stimoli, ma se nella vita ha avuto molte fregature, anziché reagire positivamente, eleverà un muro di diffidenza e di scontrosità. A quel punto, lo eviterai o gli dimostrerai che di te si può fidare? La maggior parte delle persone lo eviterà, ma cosa passerà per la testa di quella persona, a quel punto? Due cose: con la loro fuga confermeranno che delle persone non ci si può fidare e così rafforzerà la convinzione che fa bene a non aprirsi con nessuno… Bel colpo!
Che si tratti di amore, di fiducia o di qualsiasi altra cosa, sono proprio le persone che reagiscono male ad essi che ne hanno maggiore necessità e, sotto sotto, darebbero un braccio per sentirsi amate e potersi fidare di qualcuno: ricorda che tutti, indistintamente e senza eccezione, ricercano queste stesse cose e se per paura delle loro reazioni decidi di non voler più avere a che fare con loro, avrai aggiunto una sbarra alla prigione che si sono costruiti. Certo, questa è una colpa che non può esserti addebitata, ma pensa all’enorme danno che potresti fare a te stesso. Se l’interlocutore in questione è tuo marito/moglie, un tuo genitore, un tuo cliente, un tuo amico/a, ecc… poi alla fine ci perdi anche tu. Forse c’è un modo migliore.
Il sentimento di Fiducia sta alla base di ogni relazione umana, come detto, e sebbene l’amore sia un’emozione molto più forte, nessuno si aprirà mai veramente ad esso se alla base non c’è fiducia. A meno che tu non voglia accontentarti di rapporti scialbi e superficiali, non puoi permetterti di ignorare o sottovalutare questo elemento.
Riporto di seguito quelli che definisco i 3 Pilastri della Fiducia. Come vedrai, c’è molto lavoro, anche se ti sentirai già forte su almeno uno di essi. Il problema è che uno o anche due da soli non bastano: ci devono essere tutti e tre e capirai perché.
Il Primo Pilastro è quello della Competenza. Non riuscirai mai ad indurre qualcuno a fidarsi di te se non sei competente in ciò per cui si sta relazionando con te, a prescindere dall’ambito in cui tale competenza va espressa. Questo pilastro è basilare e, se viene meno, non c’è modo di compensarlo con altro. Se hai qualche disturbo a livello di salute e hai bisogno di un medico, da chi vai? Da chi ti fidi, giusto? E cioè? Da chi è riconosciuto essere bravo. E se poi non ti convince quello che ti dice o fa, lo scarichi subito.
E se non si tratta di un rapporto professionale? Non esistono solo le competenze tecnico-operative. Esistono anche le competenze emotive che prevedono la capacità di stabilire un buon rapporto con se stessi ed una buona padronanza dei propri stati emotivi: di certo non ti fideresti mai di una persona lunatica, indisciplinata e con mille paranoie. Le competenze sistemiche riguardano invece la capacità di rapportarsi in modo efficace e, perché no?, virtuoso con la Realtà con cui si sta interagendo. Purtroppo, non posso spiegarlo meglio in questa sede, ma riprenderò il discorso in un apposito articolo.
Il Secondo Pilastro è il Legame, ossia la capacità, ma soprattutto il desiderio, di instaurare un solido legame emotivo con gli altri, basato sulla volontà di apportare loro dei benefici, anche solo emozionali o morali. Puoi conoscere tutte le tecniche di comunicazione, di persuasione, di assertività, di motivazione, di PNL (Programmazione Neuro-Linguistica), ecc., ma se l’altra persona non ti sente emotivamente allineata con lei o sente che non sei veramente lì per lei, non si crea alcun legame. Tornando al medico, può anche essere il più grande luminare del mondo, ma se senti che per lui tu sei solo uno dei tanti, e si relaziona con te in quel modo, non ti fiderai di lui.
In questo, gli estroversi sono più avvantaggiati rispetto agli introversi… ma solo in apparenza. In realtà, il legame si misura sulla distanza. L’estroverso è simpatico, sa coinvolgerti ed è bravo a farti sentire importante (competenze emotive): tutt’altra cosa rispetto all’introverso, che tiene le distanze e sta sulle sue in un mondo a se stante. Alla fine, però, il tuo carattere non inciderà mai sulla tua capacità di creare un legame quanto il sincero desiderio di farlo.
Il Terzo Pilastro, infine, è l’Etica. Puoi avere tutte le Competenze di questo mondo, una forte volontà di creare dei solidi Legami, ma se i tuoi comportamenti e i tuoi atteggiamenti stridono coi dettami dell’Etica, cade tutto. Essere etici, qui, significa aderire ai principi e alle leggi della Natura e non a qualche astruso codice morale, soprattutto per quanto riguarda le relazioni umane. Ci vorrebbe un tomo da qualche migliaio di pagine per approfondire la questione, ma sintetizzo tutto con due celeberrimi detti: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a a te”, per prima cosa. Quindi, “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”: più chiaro e semplice di così…!
Poiché siamo tutti “sistemi” naturali, come già accennato, siamo intrinsecamente etici e non abbiamo bisogno di una guida per comportarci di conseguenza. Basterebbe aderire a questi due postulati, che sono già dentro di noi.
In ambito lavorativo, questo assume un’importanza straordinaria. Il più delle volte, il titolare di un’azienda o il commerciale non si preoccupano di creare più di tanto un rapporto diretto di fiducia col cliente e puntano invece sulla qualità del prodotto, sulla storia dell’azienda, sui suoi successi, sul prezzo, sull’esperienza… Certo, queste cose incidono, in qualche misura, ma poiché tali fattori riguardano tutti l’aspetto della sola Competenza, risulteranno insufficienti e, a quel punto, lo stesso cliente sceglierà ciò che riterrà più conveniente tra la marea di offerta che c’è là fuori. Il rapporto rimane sostanzialmente opportunistico e vincerà, come sempre, il più forte o il più “adatto”… e di fiducia non se ne parla proprio.
Questi tre Pilastri, invece, si trovano su tre livelli diversi ed insieme sono potentissimi. Se ben usati, costituiscono non soltanto uno tra i più importanti fattori competitivi, ma producono un rapporto vero e profondo tra persone. Tieni sempre presente che non c’è un pilastro più importante di un altro e, come dicevo, tutti e tre vanno integrati. Il consiglio è quello di lavorare sul pilastro che senti più debole in te. L’investimento di tempo, d’impegno e, nel caso, di denaro che fai sulla tua capacità di creare fiducia verso gli altri e te stesso ti ripagherà enormemente.
“Ufficio Acquisti”: una risorsa da riscoprire!
Scritto da Redazione BartnersUn’azienda verte la propria economia su due attività cardine: l’acquisto e la vendita. L’approvvigionamento delle materie prime, dei semi-lavorati, dei beni accessori e dei servizi sono le attività ordinarie che riguardano l’ufficio acquisti. Poi ci sono gli acquisti straordinari come nuovi macchinari, sviluppo tecnologico e interventi strutturali, per i quali sarebbe auspicabile la pianificazione e lo svolgimento di un’attenta ricerca atta ad individuare, caso per caso, il giusto fornitore.
Le vendite, dalle quali deriva il fatturato, sono il vero focus delle aziende. È qui che l’imprenditore concentra la massima attenzione, l’elaborazione di strategie e di piani d’azione, un’attenta programmazione e la verifica dei risultati; o almeno così dovrebbe essere. Il reparto vendite ci dà la dimensione dell’azienda, la sua organizzazione, il valore del business. L’orientamento ad aumentare le performance di vendita, ad incrementare il fatturato e a ricercare spasmodicamente nuovi mercati da conquistare sembrano prevalere su tutto. Ma è proprio così?
Se avessimo dei bilanci contabili “coerenti” all’andamento delle attività, cioè non aggiustati da opportune scritture di “rettifica” e spostamento di “partite”, questi sarebbero sufficienti per capire che le vendite e gli acquisti devono coesistere in un equilibrio ben definito e che l’attenzione e lo sforzo che si profonde per le prime va riservato anche verso le seconde. Infatti, la differenza costituisce la marginalità (positiva o negativa) dell’azienda.
Sappiamo però che i bilanci, a volte incompleti e spesso analizzati a posteriori, oltre a riflettere il passato non costituiscono uno strumento di controllo di gestione valido ed esaustivo. Così i costi e i ricavi si rincorrono seguendo la dinamica dei flussi di cassa: se c’è disponibilità finanziaria si può accedere all’acquisto oppure se la banca concede il finanziamento si potrà affrontare un dato problema. Il fatto è che ci si preoccupa di riempire sempre di più “la vasca” senza badare a come la si riempie e a quanto sia largo il foro di scolo.
Prestare attenzione agli acquisti dovrebbe essere la prima cosa da considerare per trovare un’economicità sostenibile. Questo non significa necessariamente adottare una sorta di regime di “spending review“ o addirittura di “austerity”, anzi. Ciò vuol dire esattamente il contrario! Un’azienda, infatti, per produrre e progredire deve investire! Quello che manca sono: la pianificazione ed il metodo di ricerca.
Gli acquisti, dunque, concorrono fortemente, almeno tanto quanto le vendite, a definire la marginalità dell’impresa e la determinazione del “full costing” è oramai necessaria per una corretta pianificazione economica e finanziaria dell’azienda.
Questo, tuttavia, non è sufficiente! L’ufficio acquisti deve svolgere un’attività di costante ricerca sul miglioramento della qualità dei fornitori, al fine di garantire le migliori opportunità di acquisto e ridurre il rischio di spreco di risorse.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: Quante aziende possono dire di possedere un ufficio acquisti efficiente? Quante aziende applicano davvero questi principi?
Ancora oggi in molte aziende non esiste una pianificazione degli acquisti e la ricerca è spesso effettuata attraverso lunghe “esplorazioni” su Google, con risultati a volte quanto meno discutibili! Abbiamo già avuto modo di trattare, in un articolo pubblicato sul Blog Bartners, il tema della referenzialità e della referenziabilità, nonché l’importanza di individuare per ogni esigenza il giusto interlocutore.
Invece, la comodità della routine quotidiana, la pigrizia e/o la poca propensione ad individuare nuovi rapporti commerciali, spingono gli addetti agli acquisti a rimanere legati sempre agli stessi fornitori, agli stessi articoli/servizi, senza portare alcun valore aggiunto all’azienda.
Innovazione, questa è la parola chiave che ogni ufficio acquisti dovrebbe aver ben chiara e magari stampata nella propria porta d’ingresso! Gli addetti ai lavori dovrebbero sempre pensare a come portare valore aggiunto alla propria azienda, ricercando sistemi per migliorare i processi produttivi, commerciali, comunicativi ed organizzativi nell’ottica di una crescita armonica, secondo gli obiettivi societari!
Questo richiede una continua attenzione verso le opportunità offerte dal mercato di riferimento e la capacità di inserirle nel proprio contesto, trovando vantaggi e benefici a servizio di uno sviluppo aziendale. Tutto ciò necessità della volontà di avviare un cambiamento per fare cose nuove. Innovare significa, quindi, aderire alle circostanze, ai mutamenti dell'ambiente, alle scoperte scientifiche; significa non perdere di vista il mercato, osservare e proporre risposte concrete sempre più coerenti con i bisogni dell’azienda. Tutto ciò, se non è previsto da uno specifico ufficio di ricerca e sviluppo interno, dovrebbe essere proprio il compito assegnato all’ufficio acquisti, che da statico dovrebbe assumere un atteggiamento dinamico.
Proprio la dinamicità è la chiave di tutto, poiché senza di essa nessuna Innovazione è possibile e tale dinamicità parte da una visione molto precisa che si ha dell’azienda nello specifico, del mercato in generale e soprattutto del ruolo che s’intende giocare su entrambi questi fronti. Per loro natura, sia un’azienda che il mercato sono dinamici e quando, anziché seguirne il flusso, lo si impedisce volendo costantemente tenere le cose come stanno per mantenerne un certo controllo, è allora che si perde la partita.
L’Ufficio Acquisti, visto sotto quest’ottica e non solo sotto quella più strettamente “burocratica”, come avviene solitamente, diventa un asset fondamentale ed imprescindibile di un’azienda votata ad un’imprenditoria innovativa, ma difficilmente potrà esprimere appieno il suo potenziale finché lo si continuerà a vedere soltanto come un’attività ed un costo di cui, purtroppo, non si può fare a meno.
Non è una domanda facile a cui rispondere perché per farlo ci vogliono dei riferimenti. Dove mi trovo… rispetto a cosa, chi, dove, quando?
Tutto è relativo, diceva uno molto intelligente, ma c’è qualcosa che ti può dare delle indicazioni affidabili ed è il tuo “apparato emotivo”.
Se c’è una cosa al mondo di cui puoi fidarti ciecamente, questi è il tuo apparato emotivo. Possono non piacerti, ma non mentono mai. In certi momenti faresti di tutto per non provarle e per farle smettere di torturarti, ma sono lì per dirti come stanno veramente le cose dentro di te.
Le nostre emozioni sono come le spie che si accendono e spengono su un pannello di controllo: ci dicono quale sia la situazione che stiamo vivendo e ci segnalano cosa sta andando bene e cosa va invece messo a punto. Cosa succede, però, se la nostra mente filtra o elabora le informazioni in modo tale che il sistema emotivo reagisca ad esse in modo apparentemente arbitrario?
Ad esempio, stai passando un brutto momento con la tua attività. Dovresti sentirti preoccupato e magari anche un po’ depresso… e invece, no! Siccome sei una persona dinamica e positiva, ti senti sicura di poter superare alla grande questa sfida. Questo è il messaggio che la tua mente invia al tuo apparato emotivo, che reagirà di conseguenza, facendoti provare entusiasmo e ottimismo. Potremmo considerarla una strategia di “camuffamento” della verità a fin di bene: dopotutto, che senso ha abbattersi e farsi venire l’ansia quando proprio nei momenti critici si ha bisogno di attingere a tutte le migliori risorse interiori possibili?
Va benissimo! Grandioso!... Finché non cominci a crederci veramente. Non c’è niente di male nel tirarsi su, nel farsi coraggio, nel rifiutarsi di cedere allo sgomento… ma non a costo della verità. Ho avuto a che fare con imprenditori, anche molto in gamba, che in momenti particolarmente difficili, per farsi coraggio e per non fare preoccupare i loro collaboratori, si prodigavano in mille acrobazie per non farsi travolgere dalla situazione e per non farne trapelare la gravità. Questo atteggiamento è lodevole, finché non cominci a giocare con la verità.
Cortocircuitare così il nostro sistema emotivo può avere conseguenze devastanti, sia sulla nostra salute sia sulla nostra capacità di interpretare correttamente la realtà, cosa che soprattutto un imprenditore non può permettersi. Più che mai, nei momenti di crisi, è necessario avere una chiara idea della situazione che si sta vivendo. Per prima cosa, permetti al tuo sistema emotivo di comunicare con te, di dirti come stanno veramente le cose. In fondo in fondo, lo sappiamo quello che sta succedendo, ma è solo quando sono le emozioni a dirtelo che SAI davvero dove ti trovi.
Per quanto tu possa cercare di darti tono con un po’ di entusiasmo o perfino di passione, e magari finisci anche per crederci a questo artifizio, nel più profondo sentirai sempre serpeggiare delle emozioni che potremmo definire di “sottofondo” e che non potrai mai silenziare del tutto.
Nello seguente schema puoi vedere 4 aree “emotive” e se ti sforzi a metterti in contatto con queste tue sensazioni più flebili, sebbene molto attive, puoi riuscire a capire dove ti trovi e dove devi intervenire per superare una determinata situazione. Ricordati: le tue emozioni non ti mentono mai.
La linea orizzontale rappresenta il livello di Consapevolezza, mentre quella verticale rappresenta l’incisività dell’Azione. Vediamo.
Confusione (Quadrante in basso a sinistra) – Quando il grado di Consapevolezza è medio-basso e l’Azione è scarsa o poco incisiva, subentra uno stato di Confusione. La persona fa fatica a capire quello che sta succedendo dentro e fuori di sé. La scarsa Consapevolezza la frena, mettendosi in stand-by, in attesa che le cose si facciano più chiare. Per non sbagliare, evita di prendere decisioni, di elaborare strategie o di intraprendere delle azioni significative. Mentre aspetta, porta avanti le solite cose, quelle che le danno una certa sicurezza, senza nemmeno tentare qualcosa di nuovo. Questa è l’area più ampia, dove una maggioranza “relativa” di persone si trova.
Frustrazione (Quadrante in alto a sinistra) – Anche qui, il grado di Consapevolezza è medio-basso, ma c’è molta più Azione. Questa persona non ci sta ad aspettare e anche se non le è ben chiara la situazione in cui si trova, deciderà di fare qualsiasi cosa ritenga possa tirarla fuori da lì. Si muove alla cieca, seguendo unicamente i propri schemi, reiterando strategie già collaudate, anche se non più efficaci. I risultati che otterrà saranno così molto modesti, rispetto all’impegno che ci ha messo, ed è questo a generare la Frustrazione. È una situazione perfino più pericolosa della precedente perché qui l’Azione c’è, ma se alla guida non c’è Consapevolezza, può fare danni.
(Senso di) Impotenza (Quadrante in basso a destra) – Qui la Consapevolezza è alta, ma l’Azione lascia a desiderare. Perché? Chi si trova in quest’area ha una chiara idea di ciò che sta attorno e dentro di sé ed avrebbe tutte le carte in regola per avere successo, ma non si muove. Il problema è soprattutto psicologico. Bassa autostima, senso di inadeguatezza, paura, dubbio, ecc. compromettono la capacità di esprimerci al meglio e, quel che è peggio, ci lascia con un forte senso d’Impotenza che ci preclude ogni possibilità. È forse la situazione peggiore: è come in quei sogni dove cerchi di fuggire da qualcosa, ma non riesci a muoverti. Qui, sai cosa fare e come, ma non vai oltre.
Chiarezza (Quadrante in alto a destra) – Non mi dilungo su questo. Basti dire che è la situazione ideale, dove la persona è perfettamente Consapevole e mette a frutto questo potente stato interiore con Azioniforti ed incisive. È lo stato a cui tutti dovremmo ambire e puntare.
Con la mente, è facile ritrovarsi in quest’ultima area. Siamo tutti consapevoli e iperattivi, giusto? In realtà, chi si trova qui prova un profondo senso di pace e di allineamento con il mondo esterno, a prescindere dai risultati che sta ottenendo (e che prima o poi arriveranno). Questa non è una gara a chi è più bravo. Riguarda invece la necessità di confrontarci serenamente e umilmente con quelle emozioni di sottofondo che ci dicono – se siamo disposti ad ascoltare – dove ci troviamo, dandoci la possibilità di capire dove intervenire e riportare il nostro destino sotto il nostro controllo.
Economia e finanza: due lati della stessa medaglia? Sì ma…
Scritto da Dr. Riccardo BordignonAncora oggi, spesso, si tende a confondere e a non comprendere chiaramente il lato economico dell’impresa con il lato finanziario.
E’ ben vero che essi sono strettamente intrecciati ed anzi, potremmo dire che capire quale dei due origina dall’altro sarebbe come rispondere alla classica domanda che mi faceva sempre mio nonno: “E’ nato prima l’uovo o la gallina?”.
Tuttavia, pur nel loro intreccio indissolubile, dobbiamo, in azienda, aver ben chiaro che le dinamiche economiche e finanziarie vanno ben comprese e gestite entrambe con molta attenzione, senza confondere ragionamenti che ricadono in un campo con i ragionamenti che ricadono nell’altro.
Facciamo un esempio banale per meglio chiarire il concetto ed apriamo virtualmente un’impresa il giorno 30 Dicembre. L’impresa svolge tutta la sua attività operativa nell’arco di una giornata per poi tirare le somme (chiudere il Bilancio d’Esercizio) esattamente il 31 Dicembre.
Per far nascere la nostra impresa mettiamo a disposizione 100 Euro (Capitale Sociale), che metteremo all’interno del portafoglio dell’azienda (Cassa).
Utilizziamo questi 100 Euro (Uscita di cassa) per acquistare e pagare immediatamente un prodotto (Acquisti) che rivendiamo subito ad un cliente a 150 Euro (Ricavi). L’acquirente non ci paga però subito, ci pagherà tra un mese. Nascerà per l’azienda, quindi, un credito da riscuotere tra un po’ di tempo (Crediti verso Clienti).
Chiudiamo, perciò, il nostro Bilancio riportando i classici Stato Patrimoniale e Conto Economico dell’impresa a sezioni contrapposte.
Come possiamo ben notare, siamo partiti con dei soldi (Disponibilità liquide) di 100 Euro, l’impresa nello svolgimento delle sue attività ha realizzato anche un ottimo profitto economico (50 euro di Utile) ma… alla fine del nostro esercizio ci ritroviamo senza soldi nel portafoglio. Abbiamo solamente un credito, cioè la promessa che il nostro cliente tra un mese ci pagherà.
Ma se oggi dovessimo pagare 20 Euro di tasse, cosa succederebbe?
CRISI DI LIQUIDITA’. L’azienda non sarebbe in grado di far fronte ad una propria obbligazione di pagamento, le imposte (che probabilmente si chiamano così proprio perché ci sono imposte 12).
Da questo esempio banale, quindi, comprendiamo che pur essendo intrecciate, le dinamiche economiche e le dinamiche finanziarie in azienda sono dinamiche ben diverse da gestire.
E più aumentano il numero ed il valore delle transazioni aziendali, più la parte finanziaria tende ad “assumere vita propria”, tende cioè a “slegarsi”, a perdere un’evidente correlazione diretta con la dimensione economica, perché le dinamiche di entrate ed uscite di soldi diventano così complicate e si svolgono con tempistiche così differenti dalle dinamiche economiche, che sembrano viaggiare in modo parallelo e indipendente.
“Cash is the king” va di moda ripetere in questo momento, e a ragione! perché quando un’azienda va in crisi di liquidità e non è più in grado di far fronte ai propri impegni di pagamento, la situazione può essere talmente grave da non consentire più il prosieguo dell’attività.
Ma ricordiamoci anche che i problemi di liquidità sono solo l’effetto finale di una serie di dinamiche che possono essere sia di tipo finanziario che economico.
Individuare dove stiano i punti di criticità e rimediare in breve tempo per salvare la situazione, come diceva mio nonno, è tutto un altro paio di maniche… (per giusta informazione, mio nonno non era un aziendalista ma aveva come riferimenti i classici “conti della serva” che oggi hanno lasciato il posto a complicatissimi software che dovrebbero fare tutto loro…).
Tutti vogliamo il successo e non c’è niente di sbagliato in questo, anzi.
Il problema si pone, invece, quando viene idolatrato nel momento in cui vediamo in esso una fonte di gratificazione e ci allontana da ciò che invece dovremmo perseguire per vivere in uno stato di continuo appagamento.
Tutto ciò che facciamo è per conseguire un certo successo. Il problema è che non esiste niente di più indefinito, effimero ed aleatorio di questo. Per molti, il successo è legato al raggiungimento di un obiettivo materiale; per altri, è riuscire a trasformare uno stato d’animo negativo (indesiderabile) in uno positivo (desiderabile); per altri ancora è realizzare qualcosa che dia un senso alla propria vita, quindi non necessariamente legato ad uno specifico obiettivo... per non parlare di quelli per cui il successo è riuscire a sabotare quello altrui.
Lo sbaglio che più o meno tutti commettiamo è quello di credere a priori che se avrà ciò che desidera, sarà appagato. Il mondo è pieno di gente (dello spettacolo, della finanza, della politica, ecc.) di grande successo, che ammiriamo e che vorremmo emulare, con problemi di droga, alcol, relazionali o comunque psicologicamente fragili. Non sono tutti così, per fortuna, e non voglio cadere nel solito cliché, ma chi decide di lavorare con me (e io decido di lavorare con lui/lei) deve sapere che ogni mio sforzo è orientato al reale benessere di un individuo in carne, sangue e spirito, non di una immagine posticcia nella quale si vuole trasformare.
Il solo successo solido e sostenibile che io conosca è quello di chi riesce ad allineare gli obiettivi che vuole raggiungere con ciò che scopre di essere giorno per giorno: tutto il resto è solo un capriccio che dura il tempo di una stagione. Gli obiettivi sono solo pretesti attraverso i quali perseguire quelli che sono i due scopi che ognuno di noi condivide: Crescere come esseri umani e Contribuire al benessere comune.
Se a monte dei nostri obiettivi non vi è la consapevolezza che attraverso di essi stiamo perseguendo questi due scopi, nessun successo potrà mai darci l’appagamento che di fatto desideriamo e ci condanneremo ad inseguire chimere che non aggiungeranno alcuna qualità, o significato, alle nostre esistenze. Personalmente, non mi presto ad assecondare un tale inutile e dannoso spreco di potenziale umano. Se t’interessa il vero successo – e dovrebbe – allora devi saper riconoscere e neutralizzare queste tre “trappole” che ti allontaneranno da dove vuoi veramente trovarti.
Prima trappola – Il Successo è già passato
Se ci fai caso, la parola “successo” non è un sostantivo, ma un verbo… un participio passato, per la precisione. Questo vuol dire che quando raggiungi un successo, beh, è già passato, non esiste più. Il punto è che il successo è legato a dei risultati, non è così? Come fai a dire di aver avuto successo se non corrobori quest’affermazione con dei fatti? Pensaci: finché persegui un obiettivo non hai ancora successo e qualsiasi scostamento dalle previsioni o battuta d’arresto ti procurano ansia; poi arrivano dei risultati, esulti, festeggi, il tuo ego va alle stelle… e poi? E poi basta, è andato… e ora ti tocca mantenere quel successo con sempre nuovi obiettivi, sempre più ambiziosi, senza soluzione di continuità. Questo non è successo: è un incubo!
È la nostra mente ed il nostro modo di pensare meccanicistico ad infilarci in questo cul-de-sac e succede quando il nostro focus è sui risultati. Quando, invece, il focus è sul processo e riesci a vedere l’evoluzione delle cose, allora vivi in uno stato di costante “succedere”, dove il successo sta nella consapevolezza dei progressi che vengono fatti ogni giorno, quegli stessi progressi che alla fine ti portano i risultati che vuoi, allineati coi tuoi scopi e quindi sostenibili… senza l’ansia di dover continuamente produrre, performare, rispettare un ruolino di marcia partorito da una mente insicura ed in molti casi ai limiti della paranoia.
Seconda trappola – I fattori esterni
Ci hanno fatto credere che successo e fallimento siano entrambi meritati, altra perla generata della nostra mente meccanicistica e moralistica (predisposta al giudizio). La realtà è che i fattori che contribuiscono al successo e al fallimento sono innumerevoli, da una parte, e contestuali dall’altra. Innumerevoli perché basta un nonnulla per far prendere a qualsiasi iniziativa una direzione ed un esito diversi da quelli che avrebbero preso senza quel certo “incidente”.
Inoltre, le stesse strategie ed azioni adottate ed implementate in momenti, luoghi e situazioni (contesti) diversi producono risultati impossibili da prevedere nella qualità e nei tempi. Ciò premesso, il più delle volte, la differenza nei risultati tra chi è più costante, determinato e perseverante e chi lo è meno non sta tanto nel fatto che alla fine tali qualità siano più virtuose, ma in un semplice calcolo statistico: più t’impegni, più strategie sei disposto a cambiare e più si alzano le probabilità di successo. Il miglior venditore non è sempre il più bravo a vendere, ma chi è disposto a vedere più gente.
Alla fine, la domanda che ognuno di noi deve porsi è: fino a che punto sono disposto/a ad alterare delicati equilibri tra i vari ambiti della mia vita per rincorrere un successo che dipende in larga parte da fattori esterni che comunque non posso in alcun modo controllare?
Terza trappola – La realtà alterata
Ancora una volta è il focus sui risultati ad alterare la percezione di ciò che accade ed il seguente schema illustra come. Le frecce rappresentano il percorso e la crescita fatta da diverse persone (una lettera per ogni persona) e la barra celeste sulla destra con la scritta “SUCCESSO” rappresenta il punto di arrivo, il momento in cui si manifestano i risultati che decretano il successo.
Come prima cosa da tenere presente è che ogni singolo essere umano parte da posizioni diverse (segnate dal pallino al termine della freccia). Il punto di partenza viene determinato sulla base di quelle situazioni/condizioni che possono agevolare o penalizzare il raggiungimento del successo (stato economico, status sociale, istruzione, salute, tratti caratteriali, famiglia, ecc.). Più una freccia è spostata a sinistra, maggiore è lo svantaggio.
Ad esempio, la freccia F è quella più penalizzata, partendo in svantaggio ed avendo fatto ancora poco. Riflette la freccia D, che però ha fatto molto più lavoro. Le frecce C e G sono quelle che “ce l’hanno fatta” e di cui celebriamo il successo. Mentre, però, la G ha fatto un grosso lavoro, la C è partita fortemente avvantaggiata ed ha dovuto fare poco per vincere. Queste sono le distorsioni della realtà quando il focus è sui risultati, anziché sui processi. Se la crescita di un individuo è ciò che determina il VERO successo, non c’è dubbio che la freccia D è quella più forte e meritevole di tutte, ma se anche lei è focalizzata sui risultati, si sentirà frustrata e delusa per non essere ancora riuscita a sfondare: paradossale, no?
Se riesci a tenere a mente queste tre trappole nel momento in cui persegui i tuoi obiettivi e il tuo doveroso successo, allora potrai serenamente affrontare e andare oltre qualsiasi ostacolo e perfino godere del processo che stai attraversando, sapendo che al di là di tutto questo c’è inevitabilmente quello che stai cercando.
La referenza commerciale, da sempre il miglior “biglietto da visita”
Scritto da Redazione BartnersOgnuno di noi, per i propri acquisti, desidera sempre di individuare la sicurezza e la garanzia che l’interlocutore, a cui intende rivolgersi, sia veramente serio ed affidabile. Appoggiarsi all’esperienza ed al giudizio di qualcun altro, ammesso che quest’ultimo sia altrettanto degno di credibilità, limita il rischio di incappare in acquisti impropri o sbagliati. La referenziabilità del fornitore è, quindi, la prima regola, naturale e spontanea, da seguire per avere una serena base valutativa con cui determinare le opportunità di acquisto.
Qualsiasi attività di vendita cerca, dovrebbe cercare, di accrescere la propria immagine e la considerazione dei propri clienti, migliorando la “reputation” dei propri prodotti/servizi al fine di aumentare la potenzialità commerciale ed ampliare il proprio mercato. Inoltre, tutti gli operatori commerciali ambiscono ad ottenere “refferals”, vale a dire referenze dirette o raccomandazioni, per sviluppare nuove opportunità di vendita, superando il primo e più difficile ostacolo, l’ottenimento della fiducia.
Nel processo commerciale, ma non solo, la leva primaria che muove verso una vendita o un acquisto è la fiducia; fattore che aiuta ad essere un po’ più sicuri verso qualcosa o qualcuno che non si conosce bene. Del resto sarebbe impossibile essere sempre pienamente informati su tutti i dettagli relativi ad ogni fabbisogno che si presenti. Allo stesso modo, sarebbe difficile riuscire ad esplicitare nei minimi dettagli tutte le caratteristiche relative a beni e/o servizi al momento della vendita. La fiducia è, dunque, un elemento fondamentale in ogni transazione o rapporto tra soggetti, affinché ognuno si senta sicuro della scelta che deve compiere.
Queste considerazioni trovano conferma, nella vita di tutti i giorni, dalla disperata ricerca di ottenere consensi in tutto ciò che viene prodotto. Basti pensare ai “like” o “mi piace”, alle simpatiche “emoticon” di tutti i tipi che invadono chat e social media, al numero di “followers” che oggi determinano la considerazione in cui è tenuta una persona, fino addirittura a catalogarla come “influencer”. Per non parlare poi di vere e proprie piattaforme informatiche come Booking, TripAdvisor, Trivago e simili. In pubblicità l’utilizzo del “testimonial Vip” per dare credibilità, valore e spessore alle varie proposte è un uso ormai diventato consuetudine.
La stessa indicizzazione di un sito aziendale è sinonimo di ditta “ricercata”, quindi, affidabile, anche se l’indicizzazione stessa viene sviluppata attraverso una serie di strumenti e tecniche che inficiano la naturalezza e la genuinità del dato stesso. Viene, quindi, spontaneo chiedersi quanto possano pesare queste valutazioni artificiose, seppur utili ad un primo orientamento, nel valutare la credibilità di un’azienda.
La vera e sincera referenzialità, che sia in acquisto o in vendita, è un elemento difficile da ottenere. Chi chiede una referenza in acquisto ha bisogno di trovare una soluzione “sicura” ad un proprio bisogno; chi la chiede in vendita cerca altri soggetti a cui proporre la propria soluzione. In entrambi i casi chi si espone per consigliare il “portatore di soluzioni”, si assume una responsabilità in merito al pieno successo della relazione suggerita. Responsabilità, peraltro, del tutto gratuita. Risulta così comprensibile la riluttanza dei più a fornire referenze dirette, assumendo un impegno personale, che possa inficiare la propria onorabilità nel caso in cui il rapporto consigliato non si dovesse concludere con piena soddisfazione delle parti.
Chi si assume questo nuovo ruolo relazionale, sviluppato in maniera organica, sistemica, professionale e addirittura scientifica (replicabile e ripetibile), per favorire l’incontro fra domanda ed offerta, è il nuovo sistema ideato e promosso da Bartners.
Grazie al programma di profilazione sviluppato in tutte le aziende aderenti al Sistema, unitamente al continuo confronto con i professionisti deputati, Bartners è in grado di verificare tutti gli elementi di serietà, professionalità ed affidabilità, nonché di determinare le competenze specifiche atte alla risoluzione di determinati fabbisogni. La conoscenza diretta dei “portatori di soluzioni” (ciò che produce un’azienda è sempre soluzione per qualcun altro), oltre a individuare in tempi rapidi il giusto interlocutore, permette di sostenere la candidatura dello stesso per risolvere specifiche esigenze.
Il modello di business strutturato e suggerito da Bartners, grazie ad una continua frequentazione da parte dei consulenti Bartners con le aziende inserite a Sistema consente di misurare nel tempo l’efficienza delle stesse, mantenendo quindi un elevato standard di qualità delle soluzioni individuate e suggerite ai richiedenti.
Acquistare e vendere sono le due facce della stessa medaglia ed entrambe le attività necessitano di supporti professionali per avvicinarle ed ottimizzare i rapporti.
Bartners è in grado perciò di referenziare in modo opportuno ogni azienda aderente al Sistema (opportunità in vendita) per ogni esigenza (in acquisto) espressa dagli altri soggetti appartenenti al Sistema stesso. Inoltre, attraverso l’ufficio tecnico interno dei “Business Miner” ed il supporto dei “Solutions Miner”, Bartners accompagna l’incontro tra richiedente e offerente, assistendo entrambe le parti nello sviluppo delle dinamiche commerciali, facilitando di fatto il lavoro di molte aziende.
Alla luce di queste riflessioni risulta evidente come l’affidarsi ad una ditta accreditata presso Bartners sia sinonimo di qualità, serietà ed efficienza. In altre parole, il miglior “biglietto da visita”!
Superare le convinzioni limitanti in 3 step
Scritto da Alessandro CarliCome sostiene la Programmazione NeuroLinguistica (PNL), programmiamo la nostra mente con le parole che usiamo attraverso un cosiddetto dialogo interno. Le parole da sole, tuttavia, se non corroborate e sostenute dal nostro sistema emotivo e mentale, non portano a niente.
Ecco come attivare questo sistema in modo semplice.
Credi in te stesso/a? Se facciamo questa domanda ad una fetta di popolazione, probabilmente una buona parte – diciamo il 60-70% – direbbe di sì. E se si chiedesse se crede in Dio, si avrebbe più o meno lo stesso riscontro e, con risposte meno omogenee, se crede nell’esistenza degli alieni, nei Tarocchi o nel Triangolo delle Bermude. Credere non costa nulla, dopotutto, ma fino a che punto questa “fede” può aiutarci veramente a trasformare le nostre vite e il destino delle nostre avventure professionali? Praticamente zero.
Il nostro sistema di credo, nella sua semplicità concettuale, è potentissimo e se ne infischia delle nostre convinzioni a livello della nostra mente razionale, quella di cui siamo coscienti. Se fosse vero che il 60-70% di noi crede in se stesso, non vedremmo così tanta paura, così tanta rabbia, così tanta insicurezza e il bagno di sangue che è quella scarsa autostima generalizzata, al cui confronto i danni provocati da Covid19 sono caccole. E se davvero tutte le persone che dicono di credere in Dio ci credessero veramente, saremmo un popolo di santi.
Abbiamo un assoluto bisogno di credere nelle cose che riteniamo possano soddisfare i nostri bisogni, ma questa si chiama disperazione, seppure in una forma lieve ed occulta, non fede, ed è per questo che è del tutto inutile continuare a ripeterci come un mantra quanto crediamo in noi stessi, nel nostro lavoro, nei nostri rapporti più cari e via discorrendo.
In sostanza, il nostro sistema di credo tiene conto della coerenza tra una convinzione e le azioni conseguenti. È stato teorizzato (dal dr. Michael Gazzaniga, noto neuroscienziato americano, famoso per i suoi studi proprio sul sistema di credo e sul cosiddetto cervello sociale) che nella nostra mente esiste uno specifico software che chiama “Interprete”, ovviamente virtuale, e che ha proprio il compito di controllare il costante allineamento tra un comportamento e la convinzione da cui parte, poiché qualora venisse meno tale allineamento, si entrerebbe in uno stato definito di dissonanza cognitiva. Che non è proprio il massimo…
Ad esempio, se per qualche motivo ritenessi (convinzione) che fare il bagno nel mare (comportamento) è pericoloso perché si può annegare, quante sono le possibilità che mi ci tuffi dentro? Nulle: l’Interprete m’impedirebbe di farlo per non entrare in dissonanza cognitiva. Ammettiamo, però, che sono un adolescente e con degli amici si decide di trascorrere una giornata al mare. Nel gruppo c’è una ragazzina che mi piace tanto e, nel momento che qualcuno lancia la malauguratissima idea di andare a fare il bagno tutt’insieme, l’Interprete va in crisi. Che faccio? Mostro alla ragazzina di essere un cagasotto e magari vengo anche preso in giro dagli amici?
Non posso nemmeno pensarci. L’Interprete inonda il mio corpo di paure e d’immagini nefaste dove vengo acciuffato più di là che di qua dal bagnino e rianimato col bocca a bocca sulla battigia. Ormai ho deciso: c’è troppo in gioco. Mi faccio coraggio e procedo stoicamente sfidando il destino ed affrontando le mostruose onde di 20 cm. che insidiano le mie caviglie. In quel preciso istante, succede qualcosa di straordinario: l’Interprete imbroglia!
Già. Poiché l’azione (entrata nell’acqua) è già stata compiuta, non si può tornare indietro e per non entrare in dissonanza cognitiva, all’Interprete non rimane che una sola cosa da fare: cambiare la convinzione o almeno ammorbidirla. In pochi secondi, sono passato dal temere l’acqua e non volerci avere a che fare in alcun modo all’averne, diciamo, rispetto. E sai cosa? Mi sono anche divertito.
Senza rendercene conto, in qualche misura, mettiamo in atto questo meccanismo quasi quotidianamente con piccole e grandi vicende che non riguardano soltanto le azioni, ma anche le idee, i pregiudizi, la visione che abbiamo di tutto ciò che ci circonda, di noi stessi. E cosa vorrebbe dire, per noi, sfruttare questo sistema consapevolmente per sfidare ciò che si ritiene impossibile? Se è proprio questo sistema ad ingabbiarci inconsciamente nelle nostre limitazioni, in che modo potrebbe invece aiutarci ad esprimere il nostro potenziale intervenendo consciamente sui meccanismi che possono liberarci dalle catene delle nostre paure e dei nostri dubbi? Certo, non andando in giro a ripeterci come idioti: “Devi credere di più in te stesso/a! Ce la puoi fare! Non arrenderti mai!” e corbellerie del genere.
Puoi usare questi tre passaggi per governare il tuo sistema di credo.
- Metterti in contatto con una forte motivazione
Così come il ragazzo ha sfidato l’acqua avendo una forte motivazione (non sfigurare davanti alla ragazza), lo stesso vale in qualsiasi circostanza, soprattutto sul lavoro, che è una grande palestra di crescita (insieme al rapporto di coppia). Tuttavia, trovare una forte motivazione non è così facile, soprattutto quando le sfide quotidiane si susseguono e i risultati languono. In questo caso, è necessario fare due cose: focalizzarsi sul processo, anziché sui risultati (cliccare qui per l’articolo “Aspettando la manna dal cielo…” su questo tema), per vedere gli eventi nella loro giusta prospettiva; e quindi fissarsi uno scopo forte che c’impegni a livello emotivo.
- Passare da credere a sapere
Abbiamo una mente molto concreta e non si attiva se non le dai qualcosa di solido su cui lavorare. Per questo, “credere” è del tutto insufficiente, per quanto possa essere intenso il pensiero. C’è forse differenza tra pensare: “Credo che Babbo Natale esista” e “So che Babbo Natale esiste”? Credi di avere la forza e la determinazione per superare qualsiasi ostacolo o sai di poterlo fare? Puoi scommetterci che c’è differenza, ma questo è solo il primo step, perché se lo sai, beh… come fai a saperlo? Lo sai perché, ad esempio, tutte le volte che hai provato veramente a fare qualcosa, poi l’hai sempre portato a termine; perché anche gli altri te lo riconoscono; perché la tua motivazione è molto forte; perché hai le risorse, le capacità, le competenze, il sostegno e altro ancora per riuscirci, ecc. Tutte queste cose che sai danno forza e sostanza alla convinzione… ma nemmeno così è davvero sufficiente perché manca l’ultimo ingrediente…
- Passare all’azione!
È la ciliegina su quanto detto a proposito del nostro sistema di credo. Come nell’esempio del ragazzo, per quanto possa essere radicata una convinzione, un’azione incongruente con tale convinzione è in grado di farla saltare. In pratica, usiamo consapevolmente la neurofisiologia a nostro vantaggio anziché lasciarla lavorare contro di noi. Anche qui, però, l’azione non può essere fine a se stessa. Altrimenti, perché non adottare direttamente soltanto questo terzo step? Sebbene i primi due step di per sé non vanno più di tanto ad alterare la convinzione, contribuiscono però a darle una fisionomia. Chiunque è capace di agire e magari farlo anche in modo incongruente con una convinzione, ma che ci fa poi con una nuova convinzione senza una direzione? Come il ragazzo che entra in acqua: lo fa solo per dimostrare qualcosa o perché quel gesto è finalizzato ad altro, magari di molto più importante?
Impresa e strategia: una breve prospettiva filosofica
Scritto da Dr. Riccardo BordignonPerché si fa impresa?
Questa domanda semplice ma complessa allo stesso tempo, ci porta a riflettere sulle motivazioni che spingono un imprenditore od una compagine sociale a dedicarsi, spesso anima e corpo, nel cercare di mettere insieme delle risorse (umane, materiali, finanziarie e cognitive) per produrre un prodotto e/o un servizio da vendere sul mercato.
E’ solo una questione di sopravvivenza personale? Ossia, tutto ciò è determinato dalla necessità di ottenere dal proprio lavoro un surplus di reddito che ci permetta di vivere più o meno agiatamente o vi possono essere motivazioni diverse e, forse, più profonde rispetto alla ricerca di un certo stile di vita all’interno di un determinato contesto sociale?
L’analisi sulle motivazioni e, di riflesso, sugli obiettivi a lungo termine, è un passaggio fondamentale ed imprescindibile che gli imprenditori devono fare per poter dare alla luce una strategia d’impresa che possa essere coerente con i propri valori e la propria visione del mondo, perché tale coerenza tra valori delle persone e valori dell’azienda, tra obiettivi di lungo termine dei fondatori ed obiettivi di lungo termine dell’azienda è, in effetti, il collante fondamentale che permette di instaurare un processo di profonda identificazione e condivisione tra le persone che hanno il compito di governare l’azienda e le persone, interne o esterne, che costituiscono l’organizzazione aziendale ed è un elemento cardine di quel coinvolgimento che contribuisce a dare all’azienda maggiori possibilità di sopravvivenza nel tempo.
E’ da questo contesto di analisi ed introspezione che nasce la vera strategia di un’impresa, strategia che per forza di cose origina dalla piena consapevolezza dell’imprenditore di chi egli sia e di quali obiettivi di lungo termine egli si pone come persona prima, e con la sua impresa di conseguenza.
Così come ancora di carattere filosofico si ritiene sia quello che viene forse considerato il primo manuale di strategia, il famoso “L’arte della guerra” di Sun Tzu.
L’arte della guerra è, innanzitutto, espressione del taoismo, dottrina filosofica che insegna un modo per entrare in relazione con la realtà e, sebbene esso descriva un insieme di strategie ed un insieme di accorgimenti utili a perseguire la vittoria in un conflitto militare, traspare nettamente dal libro come il conflitto stesso sia considerato una soluzione estrema dopo aver provato ogni tentativo di evitarlo cercando la vittoria utilizzando altri stratagemmi e come, infine, anche la vittoria dovrebbe essere intesa in senso “relazionale”, come un ritorno all’armonia dell’inizio di cui possono tornare a beneficiare tutti.
Ma tornando alla nostra domanda iniziale ……… perché si fa impresa?
Personalmente ritengo di aver trovato una risposta in un breve passo proprio del mio vecchio professore universitario di strategie d’impresa Enzo Rullani (uno dei più importanti pensatori in Italia), passo che mi pregio di riportare qui sotto:
“Nel capitalismo comunicativo, consumatori, lavoratori, imprenditori hanno soprattutto bisogno di significati personali, che nascono da esperienze uniche, non orientate al denaro ma al senso ….. All’inizio, in una società povera, l’arricchimento materiale sembra un motivo che basta e avanza per mettere in piedi un’impresa, subire lo stress decisionale della sua guida, assumere i rischi di investimento che ciò comporta. Ma, poi, si scopre che tutto questo non basta per giustificare e motivare le scelte fatte. Allora si cerca qualcosa che possa coinvolgere e dare soddisfazione al di là del denaro. Qualcosa, cioè, che abbia senso, prima di tutto, come misura e sviluppo della propria identità.”
Per cui, cari imprenditori, siate coscienti che la vostra impresa non è semplicemente uno strumento per guadagnare del denaro ed avere più o meno accesso alle comodità materiali.
La vostra impresa è, sopra tutto, una continua avventura di riflessione che serve a farvi diventare, e magari, a far diventare tutti i vostri collaboratori, delle persone migliori.
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Sinergie strutturate: Un supporto e un rimedio alla solitudine dell’imprenditore
Scritto da Redazione BartnersDa tempo sentiamo parlare della solitudine nella quale si trovano gli imprenditori e sempre più spesso sentiamo passare in tv servizi di “denuncia” dove gli intervistati, imprenditori appunto, lamentano di essere lasciati a sé stessi, quando invece dovrebbero essere aiutati, non solo sul piano lavorativo, ma anche su quello umano, grazie al lavoro che fanno e alle opportunità di lavoro che quotidianamente danno impiego a milioni di persone.
Una prima risposta a questa problematica è rappresentata dalla figura del consulente aziendale, professionista sempre più indispensabile all’imprenditore moderno, con tutto il suo bagaglio di esperienze, professionalità e umanità.
Nel 2016 Assoconsult ha effettuato un’indagine, vertendo su un campione di circa 400 manager ed imprenditori di aziende italiane con fatturato tra 5 e 200 milioni di euro.
Fulcro dell’analisi erano la professionalità e le competenze del consulente, la sua trasparenza nei confronti dell’imprenditore, la sua correttezza professionale ma soprattutto:
- L’approccio del consulente al problem solving;
- L’esperienza specifica dello stesso professionista nel settore di operatività dell’azienda;
- La possibilità per l’imprenditore di verificare rapidamente i risultati e i ritorni dell’investimento nel servizio di consulenza.
Come è facile intuire, oggi ancor più di ieri, il contesto di riferimento economico-finanziario e quindi l’indotto aziendale sono in costante evoluzione e cambiamento e l’esigenza delle consulenze tra professionista e imprenditore è sempre più richiesta.
Migliorare questa realtà aziendale è possibile con il consulente, a patto però di muoversi in una direzione utile ai fini aziendali.
La direttiva comune deve essere quella volta alla valorizzazione delle competenze, effettuando interventi snelli in uno spirito di condivisione di esperienze e di sviluppo di nuovi valori nonchè di opportunità in azienda.
Volendo portare risultati concreti al comparto, sono stati creati dei modelli di collaborazioni dalle forme più svariate come i distretti produttivi, le reti e le associazioni temporanee di imprese, le forme di associazionismo, le forme di networking libero o tematico e i club di imprenditori per facilitare i contatti e gli scambi commerciali.
Nonostante gli sforzi effettuati e le energie profuse – non solo in termini di tempo – non si è mai riuscito ad abbattere il frazionamento dimensionale e l’individualismo operativo del tessuto produttivo. Non era presente una sinergia strutturata tra gli attori in campo. O meglio, era lasciata nella sua forma più grezza, basata cioè sulla buona volontà delle parti e alla singola visione individuale dei partecipanti.
La figura del Business Miner a servizio dell’imprenditore
Bartners propone una nuova visione di sinergia strutturata che capovolge l’approccio relazionale tra imprenditore e consulente, incentrandola su di un duplice asset: da un lato vengono introdotte delle nuove professionalità nella consulenza, orientate al “caring” e al “problem solving” con i Solutions Miner e i Business Miner, dall’altro viene invece fatto ricorso alla più avanzata tecnologia disponibile, basata sull’intelligenza artificiale per la gestione degli enormi volumi di dati e informazioni.
Questa nuova figura professionale è la risposta fornita da Bartners come aiuto concreto a tutti gli imprenditori e alle loro realtà aziendali per facilitare gli accordi commerciali tra le parti: grazie al suo background esperienziale agevola la conciliazione tra domanda e offerta di soluzioni, per portare al successo ogni singola trattativa, salvaguardando il reciproco beneficio delle parti chiamate in causa.
Ma quali sono i concreti benefici per l’imprenditore?
Innanzitutto l’individuazione delle soluzioni più idonee alle esigenze manifestate grazie al ricorso all’AI e alle competenze professionali specializzate rispondente ad un concreto risparmio di tempo; successivamente l’individuazione di un interlocutore unico – un vero partner di business – con il quale confrontarsi in modo aperto e sincero a fronte di qualsiasi esigenza aziendale attuale o prossima che pone le basi anche per lo sviluppo di una rete di contatti e di collaborazioni.
Poter contare oggi sul Sistema Bartners significa affidarsi ad una rete di professionisti (i Solutions Miner e i Business Miner) che, coadiuvati dall’intelligenza artificiale, mettono al centro l’imprenditore e le sue informazioni, ossia la sua vera ricchezza, per ridurre gli sprechi di tempo e fornire al tempo stesso soluzioni vantaggiose per rinvigorire l’impianto aziendale sotto ogni aspetto, permettendo all’imprenditore di fronteggiare nuove esigenze, fino ad allora non emerse vuoi per mancanza di tempo piuttosto che per difficoltà economiche o priorità operative.
La vicenda del Coronavirus ha fatto emergere un prepotente bisogno di “normalità”. Il paradosso, però, è che la normalità non esiste poiché presuppone il mantenimento di uno status quo che di fatto combattiamo proprio per superarlo.
Dobbiamo fare pace col cervello.
Chi ha, o ha avuto, bambini piccoli avrà fatto l’esperienza di come gestiscono i loro giochi. Quando ricevono un giocattolo nuovo, mettono da parte quello vecchio e si focalizzano sul primo. Poi, quando cerchi di portargli via quello vecchio, abbandonano il nuovo per riprendersi il secondo e giocare con quello. Il bello dei bambini è che, non avendo filtri, ci fanno vedere come siamo fatti veramente. Da una parte, c’è la cara, vecchia, pura e semplice paura della perdita, che non ci lascia mai; dall’altra c’è che ogni cosa che possediamo diventa un riferimento senza il quale ci sentiamo persi, senza più controllo, senza più certezze, senza più sicurezza.
Prima del Covid19 avevamo tutto e quando si ha tutto si finisce fatalmente per prenderlo per scontato: la libertà, la socialità, il lavoro, il benessere, la scuola… la salute. Questa era la “normalità” e, per la miseria, la rivogliamo! In effetti, l’umanità ha sempre avuto queste cose, in qualche misura, ma in modo precario e, per questo, non erano affatto scontate. Le nostre generazioni hanno invece vissuto questi privilegi come acquisiti, diritti inalienabili garantiti dalle varie costituzioni, almeno nel cosiddetto “mondo libero”. Di punto in bianco, vengono messi in discussione e ora stiamo seriamente temendo di perderle.
Questa è la materia di cui sono fatte le crisi e di cui si sa ben poco, a parte gli effetti e quella nauseabonda sensazione di trovarci in una situazione destabilizzante e, quindi, minacciosa. E sì che, di crisi, ne abbiamo vissute tante in diverse aree della nostra vita; eppure non possiamo fare a meno di sentirci persi ogni volta che se ne presenta una nuova. Quest’ultima, poi, è indubbiamente bella grossa, soprattutto perché è la prima a coinvolgere ogni latitudine del nostro globo, cosa che nemmeno le guerre mondiali sono riuscite a fare.
Le crisi saranno sempre più la normalità, d’ora in poi: è il nuovo paradosso a cui dovremo abituarci, ma se ne conosciamo meglio le dinamiche e ci rapportiamo ad esse in modo più consapevole e costruttivo, non saranno più quel mostro che crediamo ma, anzi, impareremo a cavalcarle per accelerare il nostro processo evolutivo in ogni area delle nostre vite, compreso il business, ovviamente!
Seguono alcuni aspetti da tenere presente per imparare non solo a convivere con le crisi, ma anche a sfruttarle a proprio vantaggio.
- L’evento NON è la crisi
Per prima cosa, occorre distinguere un evento, per quanto negativo e doloroso possa essere, da una crisi. Molti commettono l’errore di fondere e, quindi, confondere le due cose: a quel punto, cominciano a vedere la situazione come avversa, resistendole. L’evento in sé non ha alcuna carica, è neutro. La parola crisi deriva dal greco krisis che significa scelta, decisione, quindi suggerisce che l’evento diventa crisi solo nel momento in cui ci si trova ad un bivio interiore.
Ad esempio, stai subendo un calo di fatturato: questo è solo un evento puro e semplice e non c’è alcun bivio. Il bivio c’è invece nella tua mente quando genera visioni ed emozioni indesiderabili, come la paura, il dubbio, la rabbia, ecc. A quel punto devi fare una scelta: reiterare, solitamente rafforzando, le solite strategie o decidere di cambiarle, a livello mentale, emotivo ed operativo.
Una crisi permane finché non si prende una decisione. Una volta presa, in un senso o nell’altro, svanisce.
- Una crisi è SEMPRE finalizzata alla tua crescita
Tutto ciò che ci accade, direttamente o indirettamente, è finalizzato alla nostra crescita (evoluzione), che è lo scopo ultimo di ogni cosa in natura. La crescita è ovviamente legata a un cambiamento e, pertanto, una crisi svanisce veramente SOLO a fronte di un cambiamento reale. Come detto prima, se si sceglie di NON cambiare, quella crisi comunque sparisce o si attenua, ma si ripresenterà presto, magari sotto mentite spoglie, con un evento anche molto diverso da quello precedente, ma che va a toccare le stesse dinamiche mentali ed emotive (ad esempio, situazioni diverse che sollecitano le stessepaure).
Non sono gli eventi in sé a farci crescere, ma il cambiamento che dobbiamo fare internamente per affrontare quegli eventi. Non possiamo imbrogliare il sistema.
- Il superamento di una crisi ha sempre ripercussioni positive sull’autostima
È molto difficile assimilare queste dinamiche finché non si cambia da un’ottica prettamente meccanicistica ad una sistemica poiché, nel primo caso, non si riescono a vedere i vari collegamenti. Tutto è legato in natura e sebbene anche il business ne sia compreso, si fa di tutto per negare questa realtà per timore di perderne il controllo. In effetti, è vero il contrario: solo quando si riesce a sviluppare una visione sistemica delle cose è possibile assumere un reale controllo.
Tornando alla crisi, come si fa a sapere di aver fatto una scelta nel senso di un reale cambiamento? Semplice: da un sensibile cambiamento che si avverte a livello dello stato emotivo, soprattutto nell’autostima, e questo per due motivi. Il primo è che, avendo dovuto affrontare delle forti sfide per superare le nostre resistenze emotive al cambiamento, si va a rafforzare la valutazione che facciamo di noi stessi, che sta alla base dell’autostima.
Il secondo motivo è più sottile ed è che, essendo anche noi natura, reagiamo positivamente a tutto ciò che facciamo nella direzione di un allineamento con essa e questo si ripercuote positivamente sulla nostra autostima.
Il mio carissimo amico e mentore, il dr. Basil De Luca, pioniere ed antesignano della crescita personale in Italia, soleva dire “in ogni momento della nostra vita, o stiamo uscendo da una crisi o ci siamo dentro in pieno o stiamo per entrarci”. Le crisi fanno dunque parte della nostra quotidianità e non ha molto senso temerle. Dobbiamo e possiamo, invece, imparare a conoscerle meglio e a gestirle poiché esse fanno per noi ciò che noi dovremmo fare, ma che non siamo disposti a fare: metterci in discussione.
Vendere è difficile?.... No, è quasi impossibile!
Scritto da Redazione BartnersSi sente sempre più spesso dire che il settore commerciale è in crisi. Perché vendere risulta tanto difficile? Eppure ogni giorno ci sono manifeste esigenze di acquisto in tutti i settori. Ogni azienda, ma vorrei dire ogni individuo, necessita o desidera quotidianamente beni e servizi. Noi tutti siamo alla continua ricerca di soddisfare i nostri bisogni o le nostre ambizioni. La vera spinta commerciale viene, dunque, dal fabbisogno di acquisto, ovvero la volontà di un soggetto (azienda o privato) di colmare una propria mancanza.
Le leggi economiche ci insegnano, del resto, che domanda e offerta si influenzano reciprocamente. Bada bene, si dice, non a caso, “domanda e offerta” e non viceversa. A onor del vero, è principalmente il prezzo ad essere influenzato dall’abbondanza o ristrettezza dell’una o dell’altra parte. Tuttavia è generalmente la tendenza del mercato a raggiungere livelli sempre più elevati di “benessere” a determinare la spinta verso la ricerca di nuove soluzioni di prodotti e servizi. Per inciso, lasciamo per un attimo da parte l’impulso creato ad arte per spingere al consumo, come, per esempio, l’invenzione di nuove mode, indotte da massicce campagne di comunicazione, pensate proprio per generare, anche se in maniera artificiosa, nuove esigenze da soddisfare.
L’acquisto e la vendita, dunque, sono due facce della stessa medaglia e pertanto dovrebbero essere correlate; seguire, come dire, lo stesso andamento: ad ogni bisogno di acquisto corrisponde una offerta di vendita. Chi “chiede” è il bisogno/desiderio di acquisto, chi “risponde” è una proposta di vendita. Questa corrispondenza potrebbe essere definita come “naturale”, e quindi segue una logica istintiva nello sviluppo di un mercato. Seguendo questo principio la vendita dovrebbe essere un’attività semplice, genuina e spontanea.
Paradossalmente dovrebbe essere più difficile acquistare che vendere, ovvero porre in essere tutte quelle attenzioni che portano verso un acquisto sicuro. Intendo dire che la soluzione ai bisogni dovrebbe rispondere ad una serie di domande tipo: come e dove trovo il “giusto” fornitore? Il fornitore è idoneo alle mie esigenze? Il fornitore corrisponde alle caratteristiche di serietà, correttezza commerciale, garanzie e assistenza? Il prodotto/servizio corrisponde esattamente ai miei fabbisogni? Sono in grado di sostenere finanziariamente l’acquisto?
Un’altra considerazione da fare è: quanto tempo impiego? Quante energie e risorse posso dedicare alla ricerca di una soluzione?
L’ottimizzazione degli acquisti, intesa non solo come trovare il bene/servizio al miglior rapporto qualità/prezzo, ma anche arrivare ad una decisione di acquisto dopo aver risposto alle domande sopra indicate, è una pratica non sempre attuata in azienda (forse un po' di più nell’ambito personale). Spesso si trovano soluzioni poco o per niente efficaci o che non portano al risultato atteso o che addirittura si rivelano delle perdite di tempo e spreco di denaro.
Ecco che, se per ogni acquisto, seguissimo queste semplici indicazioni, pensare che è molto più difficile acquistare che vendere non è poi una osservazione così lontana dalla realtà!
Allora, perché risulta tanto difficile vendere?
Semplice, perché oggi il mercato in genere risponde a delle regole diverse, si basa su dei criteri legati al profitto ad ogni costo, anche per contrastare la concorrenza sempre più spietata; quindi alla necessità di aumentare sistematicamente il fatturato. In questo scenario, la vendita non risponde più alle evoluzioni naturali del sistema di domanda e offerta, ma subisce delle forzature, delle obbligazioni e delle imposizioni.
La partita non è più condotta naturalmente dalla domanda, ma costretta e determinata dall’offerta, ed è anche e soprattutto per questo che il settore commerciale, già da diversi anni, è entrato in crisi.
Ogni buon venditore sa perfettamente che per vendere deve superare la soglia della diffidenza e conquistare la cosiddetta fiducia del cliente: una montagna dura da scalare, per raggiungere una meta altrettanto ardua da difendere.
Credo che al mondo non ci sia niente di più difficile! È necessario studiare mille modi per riuscire a parlare con il cliente (imprenditore), superando agguerrite segretarie di direzione pronte a difendere ad ogni costo la “vulnerabilità” del titolare. Quest’ultimo, spesso non preparato sui suoi veri fabbisogni, cioè non in possesso di analisi e ricerca, ma soprattutto non si è posto tutte quelle domande succitate, è indifeso circa le lusinghiere promesse del venditore.
Quest’ultimo, che deve assolutamente acquisire fiducia al fine di giungere ad una vendita (anche forzata), prometterà l’inverosimile! Il risultato è sempre lo stesso: l’imprenditore fa un acquisto non proprio confacente alle proprie necessità, quindi non risolvendo il problema o il proprio fabbisogno spreca risorse dell’azienda. Il venditore riuscirà a conquistare momentaneamente la fiducia del cliente e a strappare una vendita, ma la perderà miseramente qualche tempo dopo: nel momento in cui ciò che aveva promesso in qualche modo non sarà rispettato. Dunque, avremo un’azienda con un problema non completamente risolto, un imprenditore sempre più sfiduciato e un venditore sempre alla ricerca di nuovi potenziali clienti.
Questa banale quanto semplicistica ricostruzione, serve a comprendere quanto il modello di vendita che imperversa ormai da molti decenni abbia reso questa attività quanto mai difficile a tutti i livelli. Il punto fondamentale è che l’unica strategia efficace di questo tipo di modello di vendita è basata sullo sviluppo di un elevato numero di appuntamenti, senza aver nessun tipo di controllo sulle attività specifiche. Per meglio dire, tornando all’esempio di prima, il venditore non ha nessuna certezza di riuscire a chiudere il contratto di vendita; la sua unica forza è la capacità di persuasione, ma la vendita dipende dal convincimento o meno del cliente ad accettare la sua proposta. L’unica arma, dunque, è poter fare tante trattative e nel mucchio qualcosa si prende.
Su queste logiche si stanno scontrando, da sempre, la maggior parte delle aziende, ancora intente a trovare nuovi bacini di visibilità sempre più ampi. Ecco, quindi, la necessità di aprire nuove piazze commerciali, nuovi mercati, magari puntando ad esportare i propri prodotti all’estero; come se fosse poi sempre tutto così facile, anche perché più ampio è il mercato di riferimento e più la concorrenza si fa importante. Adottando questa strategia commerciale, peraltro, un’azienda non può determinare la resa delle proprie attività commerciali perché non ha controllo sulla risposta del proprio mercato di riferimento. Può solamente continuare a profondere sforzi ed investimenti per raggiungere il maggior numero di “prospects” possibili.
Esiste una strategia per invertire questo orientamento commerciale? Un modo per ritornare ad un mercato più naturale? Un sistema per regolare in maniera più armonica le transazioni commerciali?
Un nuovo sistema economico che sta fungendo da precursore sperimentando una nuova alternativa è il modello proposto da Bartners: un’organizzazione in grado di riportare alle origini, quindi, riequilibrare il rapporto tra domanda e offerta.
In Bartners l’attenzione è posta principalmente sulle esigenze di continuità e sviluppo aziendale, evidenziate dalle necessità di approvvigionamento di beni e servizi. Ogni azienda, nella gestione della propria attività, può contare sicuramente su una serie di rapporti con fornitori più o meno storici che sostengono i fabbisogni ordinari. Ciò nonostante, sorgono sempre e comunque nuove esigenze, dettate dall’evoluzione del business o dalla variazione delle strategie imposte dal cambiamento degli scenari di mercato. Pensiamo semplicemente all’improvvisa chiusura di attività di un fornitore abituale, che lascia un vuoto di approvvigionamento della merce/servizio specifico o l’improvvisa necessità di trovare un nuovo fornitore a seguito dell’accettazione di un cliente di una commessa non ordinaria. In questi casi la priorità è quella di identificare un nuovo “soggetto” che soddisfi appieno le aspettative del caso.
Bartners dispone di un’organizzazione in grado di referenziare, in tempi rapidi, il giusto interlocutore, sollevando, quindi, l’azienda, da lunghe ed incerte ricerche. Di contro, la stessa può essere nel contempo soluzione ai bisogni di altre aziende, aumentando di fatto la propria propensione all’incremento di clienti e di fatturato.
La struttura Bartners è formata da una precisa serie di protocolli operativi che prevedono l’intervento congiunto della “Business Intelligence”, l’ufficio tecnico interno ed il team di professionisti presenti nel territorio, tale da identificarla come la prima società di “Problem Solving” Ingegnerizzato.
La “Business intelligence” consente, a seguito dell’approfondita profilazione di ogni singola azienda, l’identificazione della stessa come ideale soluzione per una specifica richiesta, riconoscendola in maniera univoca per le caratteristiche capacità.
L’ufficio tecnico interno - dei “Business Miner” - ha il compito, fra gli altri, di verificare le indicazioni date dal sistema informatico e accompagnare il richiedente e l’offerente nella trattativa commerciale, agevolando il processo di conoscenza e di sviluppo della nuova sinergia.
Il Consulente del territorio, attribuito in qualità di “Solutions Miner” ad ogni azienda, è in grado di sostenere le scelte della governance aziendale, favorendo il dialogo con l’intero Sistema, sia per quanto riguarda le opportunità in acquisto che in vendita.
Inoltre, Bartners supporta le transazioni commerciali di ogni azienda, laddove ci sia la necessità, con strumenti finanziari opportuni, ottimizzando anche la disponibilità finanziaria.
La nuova strategia avviata da Bartners consente, dunque, di avere un ufficio acquisti, un ufficio vendite e un ufficio finanziario, in “out-sourcing” - quindi senza costi fissi - per accelerare lo sviluppo di ogni singolo business.
Bartners porta le aziende ad un livello superiore! Si tratta di un cambio epocale nel modo di fare impresa che rispecchia le naturali pretese del mercato ed il processo evolutivo, inarrestabile ed incontrovertibile, attualmente in corso.
I tempi che stiamo vivendo sono davvero quelli della fine, come suggeriscono molte religioni e movimenti spirituali? È finalmente arrivato il tempo del Messia? I buoni saranno premiati e i cattivi andranno all’inferno?
Ma soprattutto, cosa c’entra tutto questo con il business?
Basta fare una piccola ricerca su internet per trovare valanghe di contenuti che riguardano la fine del mondo e la cosa più interessante è che quell’evento pare essere davvero molto, ma molto vicino. Ora, non essendo questo il vero tema dell’articolo, non entro nel merito della questione. Quello che invece trovo più interessante è la predisposizione d’animo di ognuno di noi rispetto al concetto di attesa. Prendendo ad esempio proprio la cosiddetta fine dei tempi, vediamo che ci sono due atteggiamenti opposti: uno attendista e passivo, adottato dalla vasta maggioranza delle persone, ed un altro più dinamico e proattivo a cui aderisce un’infima minoranza.
Nel primo caso, si rimane semplicemente a sperare ed aspettare l’arrivo di Colui che metterà tutte le cose a posto, che manderà finalmente i buoni in Paradiso e i cattivi all’Inferno, che metterà fine alla morte e alla sofferenza e che stabilirà il suo Regno di Pace e Amore. Nel secondo caso, si ha una visione molto chiara e pragmatica della questione: il Regno dei Cieli non è ancora qui perché, semplicemente, non siamo ancora pronti a riceverlo e dobbiamo attivarci per capire cosa significhi “prepararci”.
E il business? Cosa c’entra con tutto questo? In realtà, non ho parlato d’altro. Gli stessi atteggiamenti descritti qui sopra li ritroviamo in ogni area della nostra vita e a maggior ragione sul lavoro. Aspettare che qualcuno venga a tirarci fuori dai guai è in contraddizione con lo scopo stesso di questa nostra realtà – molto terrena! – dove, da Vittime, dobbiamo lavorare per diventare Creatori, partendo proprio col creare il nostro destino come individui e, di conseguenza, imprenditori.
In effetti, cos’è un imprenditore se non un Creatore, cioè uno che intercetta dei bisogni o dei desideri e realizza ciò che li soddisfa? Eppure, quanti sono gli imprenditori che si sentono invece Vittime? Di un Mercato iper-competitivo, di uno Stato che non li valorizza come meriterebbero, di un Burocrazia azzoppante, di tutte le Tegole che ogni giorno cadono loro addosso...? Queste cose esistono, non c’è dubbio, ma nessuna di esse ha veramente niente a che fare con la situazione in cui si trova un’azienda.
Quante volte hai sentito (o magari pronunciato) frasi che, in sostanza, dicono:
- Sto facendo tutto il possibile
- I risultati non ripagano i miei sforzi
- Ho tutto e tutti contro
- In questo paese non è possibile lavorare (tasse, burocrazia, sindacati, ecc.)
Lo ribadisco: non nego nemmeno una virgola di queste realtà, con cui ho peraltro anch’io a che fare, come tutti. Se, però, continuiamo a pensare in termini moralistici di torto o ragione, non ne verremo mai fuori. È come dire che io sono “buono”, faccio le cose al meglio ed è solo per colpa del contesto in cui opero che non riesco ad esprimere pienamente il mio potenziale, come meriterei. Forse è proprio così, ma è comunque vittimismo e da lì a tirare i remi in barca, sperando che qualcosa (un nuovo governo, una rivoluzione, una nuova legge, ecc.) o qualcuno metta le cose a posto, è un attimo: è come aspettare il Messia.
Il tutto si restringe ad una semplice questione: il focus sul risultato. La nostra mente, che funziona per default in modo cosiddetto lineare e meccanicistico, è sempre alla continua e spasmodica ricerca di Sicurezza e Controllo, poiché la sopravvivenza dell’organismo che essa governa è la sua assoluta priorità. Non la felicità, non il successo, non il benessere… solo la nostra sopravvivenza. E come fa, la nostra mente, a sapere che siamo al sicuro? Dai risultati che otteniamo. Se ci portiamo a casa una vendita, la nostra mente si sente al sicuro ed esulta; se la perdiamo, entriamo in ansia e diamo la colpa al nostro concorrente che, prontamente, diventa nostro nemico.
La piena espressione del nostro potenziale Creativo viene sacrificato sull’altare della Sicurezza e del Controllo e i risultati che ci portiamo a casa sono il solo metro con cui misuriamo la nostra sicurezza. Paradossalmente, ciò che tutti (imprenditori in primis) considerano essere gli indiscussi riferimenti per giungere ad una concreta e pragmatica valutazione della nostra situazione, cioè i risultati (es. il fatturato), sono in realtà la nostra prigione e l’inevitabile viatico ad uno stato di perenne Vittimismo. Non che i risultati non abbiano importanza, anzi, ma vanno considerati per quelli che sono, cioè meri indicatori, non riferimenti assoluti.
Tutto questo è difficilissimo da fare, se non impossibile, senza una valida strategia mentale alternativa. Fortunatamente, tale alternativa esiste ed è il focus sul processo. Riferito all’attesa del Messia, il Vangelo dice chiaramente che non sta a noi sapere quando arriverà, ma solo che dobbiamo restare vigili. Ora, cosa sarebbe successo se ci avesse dato un giorno e un’ora precisi? Conoscendo i suoi polli – noi – sapeva che avremmo aspettato l’ultimo momento per attivarci e renderci degni di tale evento e se si considera che stiamo facendo esattamente questo, nonostante l’avvertimento, la dice lunga sulla profonda saggezza di quella frase.
Il focus sul processo è ciò che ci aiuta a liberarci dalle catene del Vittimismo, dandoci modo di esprimere la nostra reale natura Creatrice. Il risultato non è un evento a sé stante, ma la naturale ed inesorabile conseguenza di un processo costituito da diversi elementi (materiali, emotivi e mentali). Pertanto, che senso ha preoccuparsene? D’altro canto, se non s’individua il nesso tra processo e risultato, qualora quest’ultimo non risultasse per noi soddisfacente, è inevitabile che ci sentiremmo Vittime. Solo impadronendoci del processo, assumendocene la responsabilità, è possibile diventare causa: questo è ciò che ci rende Creatori.
Se, come dicono i saggi della spiritualità ebraica, il Mosciach arriverà quando saremo pronti a riceverlo (che è la conseguenza dell’essere stati dinamicamente e proattivamente vigili), lo stesso preciso concetto si applica ad ogni cosa in cui siamo impegnati ed a maggior ragione un’impresa. Aziende e mercati sono sistemi naturali che si stanno manifestando nella loro straordinaria complessità e richiedono imprenditori capaci di guidarli su presupposti molto diversi da prima.
È come passare da un cavallo a dondolo a uno vero. Ti preoccuperai per prima cosa di dove vuoi andare (risultato) o di come si fa a cavalcarlo (processo)? Il processo prevale sempre sul risultato e quando il primo guida, il secondo segue... senza eccezione.