Lunedì, 17 Maggio 2021 17:44

La leadership "improvvisata"

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Si discute spesso sulla domanda se la leadership possa essere o meno insegnata. Come spesso capita in questi casi, si sono formate due correnti di pensiero opposte. Come spesso accade, però, la realtà è un pelino più complessa di così.

 

Assumere posizioni bianco-o-nero su una questione è un atteggiamento meccanicistico comune. La realtà non è mai così “tranchante”, specialmente per quanto riguarda la leadership.

A mio avviso, la leadership non è qualcosa con cui si nasce o che possa essere imparata, ma piuttosto qualcosa che accompagna la nostra crescita. Naturalmente, è possibile trasferire qualche modello e qualche atteggiamento basilare di leadership, ma poi devi confrontarti di tanto in tanto con l'innegabile senso dell'umorismo della vita.

Nessun programma o scuola di formazione o coaching può prepararti per ciò che la vita ha in serbo per te. E se hai forti tratti caratteriali, come il focus o la determinazione, essi possono aiutarti a gestire un qualche evento inaspettato che si presenta nella tua vita e nei tuoi affari, ma spesso ti lascerà confuso e senza la minima idea sulla migliore strategia da adottare in quella situazione.

Ed è qui che entra in ballo la vera leadership. Conosco decine di diversi modelli di leadership, ma credo che esista un solo vero stile di leadership ed è la Leadership… Improvvisata, dove prendi qualunque cosa che hai imparato e tutte le tue risorse interiori per affrontare avvenimenti impossibili da prevedere... ed è così che cresciamo. Fortunatamente, non ci sono poi tanti accadimenti di questo tipo nelle nostre vite, forse 2 o 3, ma sono quelli che ci formano.

I soli riferimenti che un leader può aspettarsi di avere per capire come gestire accadimenti imprevisti sono le leggi della Natura, che chiamiamo anche principi. E' tutto ciò che abbiamo, ma basta e avanza. Voglio condividere con te un paio di esempi di Leadership Improvvisata: uno si riferisce al passato, mentre l'altro al... futuro!

L'esempio preso dal passato riguarda Gesù Cristo, notoriamente cresciuto in un ambiente giudaico che aderiva a strettissimi codici e leggi religiosi. Il problema non è l'Ebraismo, evidentemente, ma il modo in cui le persone tendono ad ingabbiarsi in interpretazioni distorte delle leggi divine e lo stesso Cristianesimo non fa eccezione. Ebbene, Gesù era stato accusato di aver mangiato del pane consacrato (riservato ai soli preti), di sabato, e di averne perfino dato a chi era con lui. A tali accuse, egli rispose che "il sabato è stato fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato" (Marco 2,26-27)

Apparentemente, nessuno prima di lui si era azzardato a ribaltare uno dei concetti più sacri dell'Ebraismo, cioè lo Shabbat (il sabato), ed erano previste serie conseguenze per coloro che osavano violarlo. Eppure, questo è esattamente ciò che ha fatto Gesù. E' forse perché era un ebreo poco osservante? Niente affatto. In effetti, il Vangelo lo presenta come un ebreo molto zelante nel rispetto dei precetti ebraici, ma metteva l'Uomo prima della Legge. Secondo lui, è la legge a dover servire l'uomo e non il contrario. Ed è così, il più delle volte, ma se una legge entrava in conflitto coi migliori interessi dell'uomo, Gesù avrebbe scelto l'uomo senza la minima esitazione.

Non intendo discutere qui su chi avesse ragione, se i sacerdoti che cercavano di difendere la legge o Gesù che le dava un nuovo significato: lascio volentieri la questione all'analisi dei teologi. Il modo in cui Gesù ha reagito alle accuse di contravvenire alla legge è ciò su cui intendo focalizzarmi. La tradizione ebraica aveva tirato una linea e Gesù ha cancellato quella linea per tirarne una nuova. Ma da dove arriva tutto questo? Chi gli ha detto di fare ciò che ha fatto o che lo potesse perfino fare? Non aveva nulla a cui riferirsi a parte il fatto che sapeva che se il lavoro dei sacerdoti era quello di servire la legge, la sua missione era invece quella di servire l'uomo. Così ha… improvvisato. 

Ma è davvero ciò che ha fatto?

E ora al futuro. Nel prequel di "Star Trek", di J.J. Abrams, al giovane Capitano Kirk, come anche a molti altri comandanti di astronavi della Federazione, viene chiesto di sottoporsi ad un test (il famoso/famigerato test "Kobayashi-Maru") per accertare la sua capacità di gestire una situazione disperata. Nessuno era mai riuscito a superare quel test ed era altamente probabile che non ci riuscisse nemmeno il Capitano Kirk. Ma lo ha fatto. Come? Ha imbrogliato! Aveva trovato il modo di alterare il software di simulazione e così è passato. Naturalmente, ha subito un processo per questo e la sua linea di difesa era che non poteva accettare il fatto di dover affrontare una situazione senza via di scampo: c'è SEMPRE una via d'uscita!

L'ancora non tanto buon amico vulcaniano, Spock, cerca di spiegargli che lo scopo del test era quello di mettere i futuri comandanti in una situazione dove si sarebbero dovuti preparare all'eventualità della sconfitta, senza alcuna possibilità di fuggirle. Ancora una volta, il Capitano Kirk non può ammettere una tale inaccettabile ipotesi. Nuovamente, qualcuno ha tirato una linea e qualcun altro ha deciso di spazzarla via e tirare la propria. Diversa era storica, diversa ambientazione, diversa circostanza, ma la stessa situazione: trovarsi a dover spingere oltre gli standard di pensiero generalmente accettati.

La Leadership Improvvisata non è in alcun modo la proposizione dell'ennesimo modello di leadership. L'ho inventata di sana pianta appositamente per questo articolo e, semmai, va oltre qualsiasi modello. Ha più a che fare con un atteggiamento che mira a stabilire nuovi schemi di pensiero. Ora, questo non può essere insegnato e non ha nemmeno a che vedere coi nostri geni. Ma non lasciarti ingannare dal termine "improvvisazione", che viene solitamente associato all'intuito, alla creatività od all'impulsività. Sia Gesù che il Capitano Kirk hanno effettivamente improvvisato, nel senso che hanno dato una loro risposta estemporanea che sembrava non avere alcun legame con qualsiasi cosa vista, sentita o perfino contemplata prima.

Solo in apparenza, però. In effetti, la loro risposta era tutto fuorché improvvisata, poiché si riferivano entrambe a principi eterni. Per Gesù era il primato dell'Uomo su qualsiasi altra cosa; per il Capitano Kirk è stato l'indomito spirito dell'Uomo che si rifiuta di soccombere alle avversità, spingendo sempre oltre. Da dove arrivano questi principi? Ci sono sempre stati e questi due uomini hanno semplicemente ricordato a noi gente "ordinaria" che siamo e valiamo molto più di quello che ci è stato fatto credere.

E non è questa l'essenza della leadership?

Venerdì, 14 Maggio 2021 17:42

La Blockchain oltre la criptovaluta

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Il trasferimento di un bene, mobile od immobile, materiale od immateriale che sia, per poter essere riconosciuto e certificato come attendibile dal resto delle persone, deve essere gestito da un ente terzo, autorevole e riconosciuto dal gruppo sociale di riferimento, in grado di attestare l’oggetto e la validità di quello scambio.

Questi Enti sono diventati nel tempo la forma istituzionale per eccellenza per attestare tali operazioni, come ad esempio banche e studi notarili tra gli altri, la cui autorevolezza risiede in buona parte nel gestire l’accesso ad un registro nel quale le transazioni vengono memorizzate.

Tuttavia, con l’avanzamento tecnologico, sono arrivate molte soluzioni che supportano le attività quotidiane e, grazie a queste innovazioni, si sono manifestate anche delle opzioni alternative ai tradizionali sistemi di scambio, opportunità che potremmo definire come transazioni su “blockchain”. 

Il termine inglese blockchain, infatti, significa letteralmente “catena di blocchi” e permette, in modo intuitivo, di comprendere quale sia l’architettura portante di questa tecnologia informatica. Per semplificare, i blocchi o nodi sono definiti come potenzialmente un qualsiasi dispositivo elettronico, ad esempio un personal computer, dotato di software in grado di elaborare informazioni nello stesso protocollo usato dal resto del sistema e connesso ad internet, in modo da poter scambiare dati con altri nodi. I blocchi della catena fanno parte di una rete più ampia, composta da altri blocchi aventi tra di loro le stesse possibilità di agire su una determinata transazione. 

Queste transazioni vengono certificate, ad esempio, attraverso un “registro condiviso“ che le memorizza e le rende disponibili ad altri nodi. Un protocollo di supervisione, autorevole e super partes, consente di validare l’informazione e renderla attendibile. 

Ecco, quindi, che con l’aiuto della tecnologia è possibile avvalersi di un sistema di regolamentazione degli scambi, non centralizzato, e talmente sicuro al punto che, di fatto, non è possibile forzare o scardinare, se non creando un blackout globale per l’intera rete. Scenario assolutamente improbabile.

La blockchain ha supportato, fin dagli albori, il mondo delle criptovalute, tant’è che, ad oggi, i dati di coinmarketcap.com riportano più di 7500 criptovalute basate su tecnologia blockchain attualmente attive, di cui più di 4000 liberamente scambiabili.

Per criptovaluta si intende un tipo di valuta virtuale che si basa su un protocollo di scambio peer-to-peer,  letteralmente “alla pari”, ovvero una rete composta da nodi aventi tutti le stesse proprietà (peers),  e, quindi, tecnicamente sprovvista di nodi gerarchicamente superiori ad altri.

Le tecnologie blockchain hanno fin da subito attirato l’attenzione essenzialmente per due proprietà: la potenzialità di essere svincolati da sistemi centrali, come quelli tradizionali, e la sicurezza offerta dalle piattaforme che le implementano.

Questi due aspetti, in antitesi tra di loro solo apparentemente, sono in realtà il punto di forza che rende questa tecnologia appropriata per una moltitudine di utilizzi. Oltre alle criptovalute, quindi, è possibile usare la blockchain anche per altri scopi, come, per esempio, nuovi protocolli di comunicazione.

Seppur originariamente la blockchain poteva essere percepita come misteriosa e criptica, recentemente è stata rivalutata la sua vera potenzialità, tant’è che molte istituzioni governative così come alcune delle più importanti aziende informatiche hanno adottato questa tecnologia per potenziare i loro progetti di sviluppo. 

A dimostrazione di quanto detto, da una ricerca del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, “Blockchain: the hype is over, get ready for ecosystems”, emerge una situazione internazionale decisamente in crescita per quanto riguarda l’utilizzo e l’implementazione di soluzioni blockchain a livello mondiale.

Infatti, il mercato si sta spostando da una fase di “hype”, ovvero aspettative inflazionate, ad una più stabile ed adeguata allo sviluppo di sistemi utili e sicuri. 

Basti pensare ai progetti promossi negli ultimi tre anni nel nostro paese che ammontano a circa 68 milioni di euro investiti, che con diverse soluzioni di  blockchain vanno a supportare diversi settori, quali finanza, agrifood, logistica, telco, assicurativo-assistenziali e automotive. 

L’osservatorio del Politecnico, inoltre, evidenzia come l’Italia sia già posizionata nei primi posti della classifica dei paesi che vantano il maggiore numero di iniziative basate su blockchain a livello mondiale, e in larga parte (59% dei volumi investiti), nel campo della finanza.

In questo contesto, l’attività promossa da Bartners si avvale della tecnologia blockchain al fine di dare valore e certificazione ai processi e agli accordi commerciali sviluppati all’interno del proprio Sistema, garantendo la massima trasparenza alle operazioni effettuate dalle aziende partner. 

Con l’implementazione di questo innovativo e consolidato sistema di certificazione, Bartners, avvalendosi dell’utilizzo di una blockchain basata su smart contracts, consente, quindi, alle aziende partner di avvalersi di strumenti economici all’avanguardia, consentendo loro di svincolarsi dagli attuali limiti delle soluzioni offerte da altri enti e supportare lo sviluppo di sinergie con altre aziende referenziate, agevolando così nuovi scambi commerciali e migliorando il modo di fare business.

Lunedì, 10 Maggio 2021 17:27

La difficile arte del desiderio

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Desiderare è il livello seminale di tutti gli obiettivi e le realizzazioni, nonché di gran lunga l'attività più comune tra gli esseri umani. Tuttavia, se questo seme è corrotto, lo sarà anche tutto ciò che ne segue.

 

Ho letto tonnellate di letteratura riguardante il raggiungimento di obiettivi, ma stranamente, molto poco (o nulla) sul determinare i desideri. Sappiamo che determinare e raggiungere obiettivi è una competenza che possiamo tutti imparare ed è già stato detto molto in proposito. Al contrario, la maggior parte di noi crede che desiderare sia qualcosa di naturale ed istintivo, ma per quanto possa sembrare strano, imparare a desiderare è di fatto anch'essa una competenza, esattamente come mangiare bene, bere bene, respirare bene e così via.

Avendo lavorato con centinaia di persone di ogni tipo, ho potuto verificare che uno dei maggiori problemi che ci affliggono un po’ tutti è la scarsa competenza nel desiderare che ci induce ad esprimere desideri che risultano incomprensibili per la nostra mente, che non è poi in grado di darvi seguito.

Se il seme che pianti per far crescere un albero da frutto è geneticamente o altrimenti corrotto, poco importa se la luce solare inonda perfettamente la pianta, quanto sia perfetto il livello di umidità, quanto ricco di minerali possa essere il terreno… finirai per avere un albero con frutti corrotti. Analogamente, essendo un desiderio il seme per qualsiasi realizzazione, se è corrotto a livello basilare, l’obiettivo conseguente rifletterà quella corruzione: è inevitabile.

Sono molti gli sbagli che le persone commettono quando desiderano realizzare un qualche tipo di stato, sia esso di natura economica, professionale, emozionale, intellettiva o spirituale e se sei, ad esempio, un executive coach o un leader aziendale, non ti farebbe forse comodo sapere quali siano tali errori per aiutare coloro che assisti? Questo, però, occuperebbe troppo spazio e troppo tempo in questa sede, quindi qui ti parlerò di uno tra i più importanti, che è quello di desiderare negativamente.

Il termine "negativo" viene solitamente associato a qualcosa di sbagliato o di moralmente discutibile, ma non in questo caso. Qui, il termine si riferisce al fatto che questo tipo di desideri nega il desiderio stesso. In altre parole, il desiderio viene annullato, e quindi corrotto, a causa di come viene formulato. 

Possiamo suddividere i desideri negativi in tre categorie. La prima categoria si focalizza su ciò che le persone "NON" vogliono. Sono in effetti quelli più ovvi ed è facile individuarli. Le persone inseriranno palesemente la parola "NON" nel desiderio, come "Non voglio più essere trattato come uno zerbino", o "Non voglio che mia suocera s’intrometta nella nostra famiglia". In alternativa, utilizzeranno verbi che, anche se espressi positivamente, palesano l'intenzione di interrompere un'abitudine o uno schema, tipo "Voglio smettere di fumare" o "Devo cambiare la mia situazione economica".

Il problema con questi desideri è che continuano a focalizzarsi proprio su quella cosa di cui le persone vogliono liberarsi. La nostra mente lavora sulle immagini, non sulle parole; pertanto, negli esempi dati sopra, continuerà a vedere zerbini, suocere, sigarette e precarietà economica, pensando "Ehi, amico, visto che ci pensi così tanto, ti deve proprio piacere questa roba, vero? Bene, divertici, allora!". Ad essere onesti, non è una conclusione proprio così bislacca e, pertanto, il solo modo che ha la nostra mente di cambiare binario è quello di dirle esattamente dove vuoi effettivamente andare e, così facendo, aiutarla a creare nuove immagini su cui possa lavorare.

La seconda categoria di desideri negativi si focalizza su immagini molto vaghe e nebulose, tipo "Voglio sentirmi e stare bene", "voglio avere successo", “voglio diventare una migliore versione di me stesso". D'accordo, c'è tanta bella roba, espressa positivamente, ma non funziona. Perché? Perché l'immagine che producono queste parole è o nebulosa o lascia alla tua mente decidere quale immagine deve creare per te. Ne consegue che non hai controllo sul tuo desiderio e sei costretto ad essere condotto dovunque quell'immagine decida.

In questo caso, le persone devono essere addestrate ad essere più precise nel formulare il loro desiderio, affinché creino un'immagine forte verso la quale andare. Puoi aiutarle in questo ponendo loro delle domande che le faccia focalizzare sui risultati desiderati, tipo "Quali sono le cose che ti fanno sentire bene?" o "Come ti vedi come persona di successo?" o ancora "Come descriveresti questa migliore versione di te stesso?". Naturalmente, puoi scendere a diversi livelli di profondità e fornire alle persone del prezioso materiale su cui lavorare.

Chiamo questa terza categoria di desideri negativi "falsi positivi". Vengono espressi positivamente e forniscono una chiara immagine di ciò che le persone cercano... MA, li portano comunque a focalizzare su ciò da cui vogliono allontanarsi. "Voglio avere maggiore tranquillità nella mia vita" ne è un esempio. Volere tranquillità significa che non ne hanno molta in questo momento. E COSA hanno, invece? Ecco l'immagine che le persone hanno in testa. Un altro esempio sul lavoro è "Ho bisogno di una forza vendite più motivata". Perché? Cosa non va con il livello di motivazione attuale? Cosa manca?

Questa negazione del desiderio è un po' più difficile da riconoscere, ma con un pizzico di empatia ed interrogando quei desideri, sarai in grado di capire dove si trova il vero focus. Per cambiare focus devi cambiare prospettiva, trasformando un bisogno in autentico desiderio, ponendo domande quali "Cosa apporterebbe nella tua vita una maggiore tranquillità?" o "In che modo ne beneficerebbe la tua azienda con una forza vendite più motivata?" Vedi? Tranquillità e motivazione non sono più la vera questione, adesso, bensì cosa ne verrebbe fuori da esse ed è così che porti le persone da uno stato "attuale" ad uno stato "desiderato".

Ora che i desideri sono "corretti" puoi lavorare sul raggiungimento degli obiettivi, sapendo esattamente dove devi portare le persone (o te stesso) affinché possano sentirsi e "performare" meglio. Ci sarebbe ancora molto altro lavoro, ovviamente, ma questo è certamente un buon posto da cui iniziare per lavorare efficacemente sulla determinazione dei desideri.

Se qualcuno dovesse chiedercelo, la maggior parte di noi dichiarerebbe che noi siamo esattamente ciò che sembriamo: ciò che vedi è ciò che sono! Ma è davvero così? E come fai a saperlo? Essere noi stessi è molto più difficile di quanto pensiamo. Soprattutto sul lavoro.

 

Nessun rapporto è possibile tra persone che indossano maschere, per il semplice motivo che ci stiamo relazionando con un'illusione. Eppure, la maggior parte dei rapporti si fonda proprio su questa condizione. Ed è proprio sul luogo di lavoro, o negli affari in generale, che l'opacità regna sovrana. Poiché si pensa che non vi sia un reale bisogno di costruire rapporti forti e profondi, perché darsi la pena di essere "veri" e rischiare di diventare vulnerabili? 

Ancora oggi, in molti casi si parte dal presupposto che l’autenticità in azienda sia un lusso superfluo, così come costruire un forte rapporto tra colleghi di lavoro: rispettare il nostro ruolo e fare il nostro lavoro come si deve è tutto ciò che ci viene richiesto e, paradossalmente, l’autenticità potrebbe perfino essere d’inciampo. Inoltre, si ritiene che essere se stessi potrebbe renderci più vulnerabili, andando ad indebolire la squadra nel suo insieme. 

Intanto va chiarita una cosa e cioè... cosa significa essere "se stessi"? Senza perderci in elucubrazioni intellettuali, alla fine, è una questione di desiderio: cosa vogliamo per noi stessi dal nostro lavoro? Come intendiamo e vogliamo contribuire al benessere dell'azienda e delle persone che ne sono coinvolte? In che modo il nostro lavoro ci chiede di usare i nostri talenti, le nostre risorse, le nostre capacità per aiutarci a performare al meglio? In che modo il nostro lavoro ci dà uno scopo ed una direzione che abbiano un senso per noi? Come ci aiuta a crescere? 

Se ti senti libero di operare in funzione delle risposte che dai a queste domande, allora sei in linea con la tua natura. In caso contrario, vuol dire che ci sono tre ostacoli importanti alla tua piena espressione.

Il primo ostacolo riguarda le aspettative esterne. Questo fattore esercita un'enorme pressione sulle persone, dacché vengono istruite ad eseguire un incarico che è loro affidato e niente più. I collaboratori non si vedono come risorse che, se ben guidate e gestite, possono produrre fatti e risultati straordinari, bensì come strumenti ad uso e consumo del leader/manager. 

Ruoli ed incarichi sono un'invenzione "meccanicistica" che alla fine svilisce la collaborazione. Un martello è un martello e mi aspetto che faccia il martello e nient'altro: questo funziona. Un individuo, però, è molto più complesso e all'interno di un contesto sistemico non può essere visto e trattato come un asset immutabile. Questo è ciò che succede, però, ed è piuttosto doloroso per chiunque deludere gli altri sulle aspettative che hanno su di noi. Il che ci porta al secondo ostacolo, che è la

Visione interna. Per aderire alle aspettative che gli altri hanno su di noi, tendiamo ad adeguarci al ruolo che ci viene affibbiato. Interpretiamo molti ruoli nella vita; il marito/moglie, il genitore/figlio, il cittadino rispettoso e così via. Immaginati in una situazione di compravendita: vedrai l'enorme differenza tra quando sei tu a vendere qualcosa rispetto a quando compri.

Ci adeguiamo alle convinzioni e ai valori ai quali scegliamo di aderire e non possiamo eludere questo processo. Diventa però un problema quando formiamo una visione di noi stessi che si conforma al ruolo che abbiamo creato ed è così che costruiamo le sbarre della prigione.

Il terzo ostacolo è l'opportunismo. Miriamo tutti ad uno di due risultati: evitare dolore e ricercare piacere. Le conseguenze di questo sono piuttosto evidenti e cercheremo sempre di indossare la maschera più adeguata per una determinata situazione, in modo tale da produrre per noi il minor numero di problemi e i più alti benefici. 

Questo meccanismo interno è così sottile ed istintivo che non siamo neppure in grado di rilevarlo. Quindi, sebbene ci piaccia credere di essere autentici, il nostro comportamento è del tutto opportunistico. Se fossimo veramente autentici, il nostro comportamento sarebbe sempre lo stesso, a prescindere da contesti e situazioni.

Hai notato che siamo noi, e non gli altri, a creare gli ostacoli per noi stessi? La pressione psicologica in certi ambienti può essere molto forte, ma alla fine siamo noi a caderci più o meno volontariamente. Imparare ad essere autentici è un processo che dura un'intera vita e, paradossalmente, questi ostacoli sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per impegnarci seriamente ad esso. Ecco come.

Diventare consapevoli dei ruoli che adottiamo - Se non decidessimo di indossare maschere non potremmo mai diventare consapevoli dei ruoli che interpretiamo nelle nostre vite. Se noti delle incoerenze comportamentali nei diversi ambiti della tua vita (es. al lavoro sei in un modo e a casa in un altro), è molto probabile che stai indossando maschere in funzione di ciò che ti conviene. Questo è normale, non è niente di cui sentirsi in colpa e diventarne consapevole ti dà l'opportunità di correggerti.

Accettare e superare la vergogna - Il sentimento di vergogna viene fuori quando violiamo i nostri stessi valori. Essere autentici (onestà, trasparenza, ecc.) è un valore che la maggior parte delle persone condivide e, pertanto, provare vergogna perché abbiamo tradito noi stessi è un buon segno! Ci motiva a non perseverare in un determinato comportamento… purché non ci lasciamo sopraffare dalla vergogna! E' inutile strapparci i capelli: appena una briciola di vergogna è tutto ciò che serve.

Fidarsi della pancia - In qualsiasi situazione, sappiamo sempre cosa dovremmo fare, poiché siamo tutti creature etiche. È quando ci rifiutiamo di dare ascolto alla vocina che viene dalla pancia e lasciamo che siano gli istinti a sopraffarci per motivi egoistici che diventiamo falsi. Imparare a dare ascolto alla vocina e fidarci di essa promuove una straordinaria crescita personale.

Diventare autentici è un processo molto lungo e di certo il più ostico. Per giunta, le aziende difficilmente lo appoggiano a causa delle false convinzioni a cui accennavo prima. Si ritiene che il conformismo e l'adozione dei ruoli rendano l'azienda più controllabile: ne dubito, ma è certo che blocchino creatività e flessibilità, rendendo tali aziende paradossalmente più vulnerabili, sia dentro che fuori. 

La trasparenza favorisce le relazioni più vere e rafforza le squadre, rendendo più facile risolvere i problemi ed affrontare le sfide del mercato. Per "default", nessuno di noi è veramente autentico, poiché siamo incapaci di vedere i benefici nell'essere tali nel breve termine. Le cose, però, stanno cambiando e molto velocemente e questo autorizza ad un cauto ottimismo.

Alla fine, tutto si riduce ad una semplice domanda: “sei tu il tipo di persona con la quale vorresti lavorare e di cui avresti totale fiducia?” 

Non avere fretta a rispondere.

Negli ultimi anni si è sentito parlare sempre più spesso di Intelligenza Artificiale e delle sue numerose applicazioni. Tale tecnologia ha fatto passi da gigante, divenendo sempre più importante per moltissime imprese, basti pensare alle trasformazioni che sta portando ai processi economici e sociali.

Le società che stanno applicando questa nuova tecnologia informatica sono in grado di cambiare profondamente le logiche e le dinamiche dei precedenti modelli di business. La gestione delle Banche Dati, unitamente a programmi di A.I., consentono di aumentare esponenzialmente la  velocità e la precisione della ricerca, generare nuove concezioni (basate su una mole importante di dati, per delineare nuove strategie operative), ridurre o gestire l’errore umano, ed, infine, ottimizzare i processi produttivi, per esempio  implementando sistemi di manutenzione predittiva che sfruttano algoritmi di apprendimento automatico (machine learning), riducendo l’impatto di eventuali guasti o malfunzionamenti.

Tutto questo migliora le performance delle aziende che adottano questo nuovo paradigma, permettendo un supporto efficiente, adattivo e preciso sia sul piano strategico che su quello operativo.

Da un certo punto di vista la A.I. potrebbe essere associata al timore che questi nuovi sistemi prendano il sopravvento sui metodi e processi lavorativi tradizionali, rendendo alcune occupazioni superflue o facilmente sostituibili. Questo, tuttavia, non dovrebbe costituire motivo di preoccupazione, dal momento che questi sistemi vengono progettati, di fatto, come un supporto alle persone e non come uno strumento per rimpiazzarle, dando, di conseguenza, vita a nuove opportunità lavorative, organizzative e commerciali, a patto che, contemporaneamente allo sviluppo tecnologico, ci sia la volontà di far crescere, attraverso specifici programmi formativi, anche le competenze dei nuovi operatori da impiegare.

Una forte accelerazione in questa direzione, quasi senza precedenti, è stata data dalla comparsa del Covid-19. Infatti, quasi tutte le Software House hanno subito iniziato a pensare, e poi a rendere disponibili, nuove soluzioni informatiche per poter lavorare da remoto, gestire riunioni virtuali con colleghi e clienti (o potenziali tali), in un'ottica non solo di sicurezza individuale, riducendo di fatto le possibilità di contagio, ma anche rendendo disponibili strumenti di connessione che fino a quasi ad un anno fa non erano ancora stati pensati e/o potenziati come li conosciamo oggi. Pensiamo, solo per fare un semplice esempio, ai web-meeting e alle loro evoluzioni, con Zoom in primis, per potersi confrontare in una riunione con più partecipanti.

Tornando all’impiego della A.I. in ambito lavorativo, è chiaro che la possibilità di incamerare, ricercare, confrontare, associare ed abbinare un’enorme mole di dati, attraverso precisi algoritmi logici o di calcolo, o comprendere in modo semantico una richiesta e dare una precisa risposta, diventa una risorsa determinante per aumentare potenzialmente qualsiasi tipo di performance professionale.

Ma perché l’intelligenza artificiale è così significativa per Bartners?

Bartners, fin dalla sua concezione ed in un'ottica decisamente lungimirante, ha puntato su questa ultima frontiera tecnologica, per realizzare un nuovo sistema economico basato sulla referenzialità commerciale, ovvero abbinare alle svariate esigenze di approvvigionamento aziendale, le rispettive soluzioni proposte da aziende altamente profilate, quindi riconosciute e calibrate per le specificità di intervento. Portare in tempi rapidi una precisa soluzione ad un fabbisogno attraverso un’Azienda specializzata è, infatti, la principale missione del Sistema. Diventa facile pensare, dunque, che Bartners è in grado di rappresentare, con la sua organizzazione, la prima struttura di Problem Solving Industrializzato, in grado d’ individuare per ogni tipo di problematica il giusto interlocutore, esclusivamente referenziato, in grado di portare le più adeguate risposte.

Nel caso specifico, l'A.I. rivoluziona la ricerca del fornitore idoneo, individuando fra le aziende appartenenti al Sistema Bartners, e rispondenti alle caratteristiche richieste, quella più qualificata a portare la giusta soluzione alla necessità espressa. Attraverso l’intervento di un professionista, chiamato Business Miner, la parte richiedente viene messa in contatto con la parte offerente consentendo un matching diretto e mirato tra le esigenze palesate da un'impresa e le soluzioni, quali servizi o prodotti proposti da un'altra impresa, in modo da far iniziare loro una collaborazione e originare una nuova sinergia, e supportandoli dove necessario.

In cosa si traduce questo?

Per Bartners è molto semplice: ridurre i tempi di risposta, individuare fornitori referenziati, quindi seri, qualificati e affidabili, presentando soluzioni innovative al cliente e permettendogli di affidarsi ad un partner commerciale unico nel suo genere.

Chiaramente l'A.I. attuale e futura resta, per quanto evoluta, un software e, come tale, ha bisogno di essere supervisionato dall'intervento umano. Ecco come in Bartners entrano in gioco due nuove figure professionali, uniche nel loro genere, per doti e per caratteristiche lavorative: i Solutions Miner e i Business Miner.

Entrambe hanno a che fare con l’esclusivo sistema informatico messo a disposizione da Bartners. I primi si occupano di ricercare nel mercato le aziende che, per caratteristiche distintive, portano nuove soluzioni all’interno del Sistema, nonché arricchire il database con continue informazioni raccolte dalle aziende (Partners) già attive, consentendo di incrementare una banca dati esclusiva.

I secondi, a loro volta, si occupano della ricerca di soluzioni mirate e di novità da proporre, in un'ottica di abbattimento dei costi, riduzione delle tempistiche, per una fornitura di servizi sempre più accurata e su misura per i nostri Partners.

L’A.I., attraverso la sua personale configurazione, è in grado leggere, confrontare ed elaborare in tempo reale le informazioni contenute nel Big Data, restituendo immediatamente in output indicazioni precise per i Business Miner, che provvedono ad organizzare immediatamente un incontro tra le parti per facilitare la conclusione di un nuovo rapporto commerciale.

Tecnicismi a parte, il valore aggiunto che viene portato direttamente alle aziende, attraverso l’impiego dell’intelligenza artificiale, è un’indiscutibile velocizzazione nell’individualizzazione delle soluzioni necessarie alla conduzione corrente di un’attività e/o nell’attivazione di nuove collaborazioni commerciali, il tutto sostenuto da un’organizzazione proattiva a sostegno delle parti.

Come ultima considerazione, è doveroso sottolineare che, senza l’attuale tecnologia, quello che oggi è possibile fare, era pura fantasia fino a qualche anno fa. L’innovazione informatica ed elettronica, con processori sempre più performanti, sta rivoluzionando il modo di fare impresa e la capacità di rimanere nel mercato: restare allineati allo sviluppo tecnologico è una questione di sopravvivenza e continuità aziendale.

Lunedì, 26 Aprile 2021 18:41

Meglio non contare troppo sull'esperienza

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Ci sono manager e leader che ripongono molta fiducia sull'esperienza per prendere decisioni e adottare strategie che ritengono faranno ottenere loro i risultati desiderati. Ma siamo sicuri che sia una buona idea? L'esperienza è davvero un asset così importante?

 

La maggior parte dei manager si affida molto alla sua esperienza, al punto da considerarla un fattore competitivo chiave sia a livello personale (rispetto ad altri manager), sia a livello aziendale (rispetto ad altre aziende). Credo sia opportuno chiedersi quanto sia saggio dare così tanta fiducia ed enfasi all'esperienza. È davvero così affidabile? E possono i manager più maturi sentirsi veramente sicuri nell'affidarsi alla loro esperienza per prendere decisioni critiche?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire cosa sia veramente ciò che chiamiamo "esperienza" e se, per sua stessa natura, possa considerarsi un vero fattore competitivo oppure una pericolosa trappola. La stragrande maggioranza delle persone crede che l'esperienza sia legata ad eventi passati e/o a come tali eventi siano stati gestiti (con successo o meno). In realtà, ciò che definiamo esperienza è il risultato di convinzioni che abbiamo formato riguardo a ciò che è successo e di come è poi andata a finire. Questo avviene in uno di due modi: per induzione, dove uno assorbe una convinzione che viene volontariamente od involontariamente promossa all'interno di un determinato ambiente; o per deduzione (o inferenza), dove si formula una conclusione basata sulla propria personale interpretazione di certi eventi.

Nel caso dell'esperienza, dobbiamo decisamente togliere l'induzione dall'equazione poiché nessuno può affermare di aver maturato una qualsiasi esperienza da ciò che ha sentito o imparato “là fuori”: l'esperienza è qualcosa che dobbiamo acquisire in prima persona e pensare che: "Ci sono passato ed ho imparato qualcosa di importante a riguardo." Ebbene, cosa hai imparato, esattamente? In che modo hai associato un certo evento con un determinato risultato?... Vedi dove ci sta portando tutto questo?

Ammettiamo che tu abbia assunto un venticinquenne per occupare una posizione strategica nella tua azienda. E' nato - diciamo - in Canada, da una famiglia ebrea, si è laureato in letteratura inglese, ha gli occhi blu ed è allergico ai gatti. Ora, questo ragazzo si è rivelato un disastro e hai dovuto licenziarlo. Così, hai maturato un'esperienza su ciò che è successo ed ora sai che non dovrai più assumere persone che... Che "cosa"? Quali conclusioni hai tratto in proposito? Cosa ne hai dedotto? Che non va bene assumere canadesi? O ebrei? O un laureato in lettere? O persone con gli occhi blu o troppo giovani o allergici ai gatti?

D'accordo, sto semplificando molto, qui, ma se pensi che non abbia mai incontrato persone che formano la loro esperienza su conclusioni totalmente prevenute, basate sulla razza, la religione, l'origine, l'opinione politica o anche la squadra di calcio del cuore, beh, potrei sconvolgerti! Il problema è che 1) formiamo le nostre convinzioni in base a come interpretiamo gli eventi e 2) le nostre convinzioni diventano fatti. Pertanto, la cosiddetta esperienza non è che il risultato di convinzioni che le persone trasformano in fatti nella loro mente.

Può sembrare che si tratti di un processo mentale molto fragile e vulnerabile, ma in realtà il sistema di credo è una dotazione straordinariamente potente. Ci consente di imparare cose di cui non abbiamo fatto diretta esperienza da chi invece l'ha fatta, mettendoci in grado di risolvere in pochi secondi problemi che l'umanità a impiegato secoli per trovare una soluzione. E' pazzesco e, da questo punto di vista, l'esperienza è decisamente un bagaglio che non ha prezzo; ma come ho spiegato, può anche diventar il nostro peggiore tallone di Achille.

Tuttavia, non possiamo permetterci di rinunciare agli enormi benefici che derivano dal costruire una solida esperienza nel corso di diversi anni o decenni. Basta essere consapevoli delle seguenti trappole.

1. Prendere per scontato ciò che sai (o credi di sapere) - Non va mai dimenticato che le convinzioni sono solo supposizioni e, pertanto, una parte notevole del tuo bagaglio di esperienza si basa di fatto su supposizioni, per quanto solide possano sembrare. Può essere un pensiero angosciante, ma al tempo stesso tali supposizioni ti consentono anche di esplorare nuove possibilità ed elaborare strategie autenticamente innovative, specialmente in situazioni di cambiamento. La tua esperienza rimane un forte asset e puoi farne buon uso senza esserne controllato;

2. Considerare l'esperienza un fattore competitivo - Troppi manager usano l'esperienza che hanno maturato nel tempo come leva di potere e per creare competizione con colleghi o subalterni. Tuttavia, l'esperienza ha un qualche reale valore solo finché viene condivisa ed offerta per discussione. Ogni altra cosa è vanità e non solo rivela una scarsa fiducia in se stessi, ma compromette le relazioni.

3. "Diventare" la tua esperienza - Molti non solo usano l'esperienza come leva di potere, ma diventano la loro esperienza. Questo significa che ciò che hanno da contribuire, e la loro stessa essenza professionale, si basa quasi totalmente sull'esperienza che hanno maturato negli anni. Di conseguenza, diventano molto protettivi e gelosi della loro esperienza e la difenderanno ad ogni costo, poco importa a quali crisi e conflitti porterà questo atteggiamento.

4. Smettere di imparare – In questo caso le persone confondono l'esperienza con la conoscenza. In altre parole, credono che l'esperienza possa abbondantemente compensare la mancanza di nuova conoscenza e quindi smettono di imparare. E per rendere le cose ancora peggiori, vedono la nuova conoscenza come fumo negli occhi, nonché una minaccia alla loro esperienza. Fai un respiro profondo e rilassati: la conoscenza e l'esperienza non sono alternative… sono complementari.


Hai lavorato molto duramente per formare la tua esperienza e nel processo ti sarai preso anche qualche bella badilata sui denti, quindi non rinunciarvi. Ricorda soltanto che sei e puoi dare molto di più della tua esperienza.

Negli affari, come nella vita in genere, non è possibile realizzare niente senza controllo ed il potere che ne consegue. Eppure, potere e controllo sono tutt'ora tra i concetti meno compresi nella leadership e le conseguenze di ciò sono spesso disastrose.

 

Qualunque problema si possa avere nella vita o negli affari, alla fine ha a che fare con una carenza di controllo e di potere, che sia a livello materiale (fisico), emozionale o mentale. E il problema nel problema è che è spesso poco chiaro cosa siano davvero controllo e potere, poiché questi due aspetti fondamentali della vita vengono gestiti da un punto di vista meccanicistico che distorce completamente tali concetti.

Tale visione della realtà ci induce a ricercare il controllo e ad implementare il potere attraverso azioni forzose che mirano a far accadere le cose e ad assicurarsi che siano e restino esattamente come le vogliamo. Cercando così di piegare la Natura al nostro volere, creiamo di fatto le crisi e i conflitti che si manifestano con le nostre mani, poiché sono due le cose che non possono essere in alcun modo controllate: i sistemi e le persone (che sono sistemi a loro volta).

E a rendere le cose peggiori, le aziende e le istituzioni umane in genere si affidano alla forza, la determinazione, il coraggio e al carisma di persone che definiamo "leader" per raggiungere risultati e realizzare progetti, ma a meno che essi non pensino e non si muovano da una prospettiva sistemica, il loro successo (che viene visto in relazione alle loro azioni) produrrà effetti collaterali (crisi e conflitti che, al contrario, NON vengono visti in relazione alle loro azioni) che ne mineranno la solidità. 

È quindi possibile ottenere risultati più che lusinghieri nel breve-medio periodo, ma gettando al tempo stesso le basi per potenziali disastri sul lungo termine. Sebbene non si possano vedere o percepire, i sistemi sono aspetti molto solidi e concreti di questa realtà che il leader del terzo millennio deve imparare a conoscere, muovendosi poi secondo le leggi che li governano.

Il controllo meccanicistico in un contesto sistemico non può funzionare. Più proviamo ad esercitare controllo e potere, solitamente con l'imposizione o la manipolazione, più essi ci scivoleranno via. Va individuato un nuovo modello di leadership, molto diverso da quello che conosciamo, un modello che si focalizzi sul modo in cui funzionano i sistemi e su come, conoscendo sempre di più la loro natura, possiamo imparare a controllarli. E' come andare a cavallo. Se non ci sai andare, urlare o facendo strani movimenti non sposterà il cavallo di un centimetro. E se cerchi di convincerlo con una frustata, ti scarica a terra in un secondo. Solo riuscendo a capire la vera natura del cavallo ed a cosa risponde potrai finalmente cavalcarlo (o "controllarlo").

Questo ha implicazioni enormi su ciò che definiamo "leadership" oggi e si tratta di una svolta epocale. Ciò che implica è che non solo siamo tutti potenziali leader, ma siamo anche tutti chiamati ad esercitare la nostra leadership: nessuno può tirarsi indietro. Poiché questo nuovo modello non si basa più su tratti caratteriali ben definiti che favoriscono la competitività, andare a conoscere e ad applicare principi sistemici è qualcosa che CHIUNQUE può fare e poiché si tratta di osservare le leggi naturali, non vi è competitività. 

Pertanto, imparare di più sui sistemi e su come aderire ad essi significa acquisire un REALE controllo e potere sulle nostre vite o attività, contribuendo così anche al benessere della collettività. Affinché questo possa accadere dobbiamo ricordare che:


1. Non esistono "vuoti" in natura - Sia le scienze naturali che sociali hanno stabilito che nessun "vuoto" è possibile nella nostra realtà. Laddove vi sia un vuoto od una carenza, qualcosa andrà a riempirlo. Nello specifico, se non si ha controllo o potere su un qualsiasi aspetto della vita, qualcosa (o qualcuno) se lo prenderà. Vi è una domanda molto semplice che dovremmo porci: "Se non sono io ad avere controllo, chi ce l'ha su di me?" A meno che non si voglia essere controllati, dobbiamo assumere il controllo: non esiste alternativa. 

2. "Tira", non "spingere" - Non accade nulla se non lo si fa secondo Natura. O meglio, le cose accadono lo stesso, ma non nel modo in cui le vorremmo. Forzare la Natura (spingere) imponendo il nostro volere causa risposte indesiderabili. L'alternativa è capire cosa può indurre la Natura a darci ciò che vogliamo (tirare). Qualcuno lo troverà frustrante, ma in realtà nessuno di noi ha alcun potere di realizzare checchessia. Tutto ciò che possiamo fare è "convincere" i sistemi a darci ciò che vogliamo. Questa è probabilmente la consapevolezza più importante rispetto ai sistemi.

3. Smettila di biasimare - Che si tratti di persone o eventi, trattieniti dal biasimare qualcuno o qualcosa per i risultati indesiderabili che stai ottenendo. Quando biasimi stai implicitamente ammettendo di non aver alcun controllo o potere sul tuo ambiente, ma è invece qualcuno o qualcos'altro ad averli. Questa è una posizione estremamente pericolosa perché in questo modo crei dei vuoti che altri saranno in grado (e felici) di riempire, rendendo la tua vita (ed il tuo lavoro) miserabile.

4. Assumi la piena responsabilità per QUALSIASI cosa ti accade, a prescindere di chi sia la colpa. Sii colui che riempie il vuoto ponendoti domande quali: "Cosa avrei potuto fare di diverso?... Cosa mi sta dicendo questa situazione a proposito del controllo e del potere che sto esercitando sul mio ambiente?... Cosa posso fare per evitare che cose del genere accadano nuovamente o che addirittura possa trasformarle in benefici per il mio ambiente...", ecc. Tendiamo ad interpretare le cose in termini di giusto o sbagliato, e cerchiamo sempre chi stia sbagliando o cosa c'è di sbagliato. Dobbiamo andare oltre questo se vogliamo assumere il controllo.

È da prevedere un radicale spostamento di paradigmi, per quanto concerne la leadership. In realtà è già in atto, ma non è stato ancora riconosciuto, men che meno digerito. Questo apre a straordinarie opportunità per ognuno di noi, poiché ci richiede di diventare protagonisti dei tempi che stiamo vivendo. Non sarà un compito facile, ma non potremo eluderlo. Quindi, tanto vale prepararci ad aggiungere una tacca sulla nostra stecca della crescita personale ed imprenditoriale. 

Non ce ne pentiremo.

Nel precedente articolo abbiamo definito quello che può essere la buona regola perché si realizzi un certo equilibrio finanziario in azienda e cioè:

“calibrare Impieghi a breve termine con Fonti di finanziamento a breve termine e Impieghi di medio-lungo termine con Fonti di finanziamento di medio-lungo termine e, contemporaneamente, monitorare i tempi di ri-trasformazione in liquidità degli impieghi stessi perché, altrimenti, potrebbero essere necessari anche dei correttivi proprio in termini finanziari (e mi sento di dire, per esperienza, che i correttivi non sono casi rari).”

Dopo aver evidenziato come può essere impiegato il capitale disponibile in azienda, è il momento di evidenziare quali possano essere le Fonti del capitale, in parole povere da dove possa provenire la liquidità che l’azienda ha a disposizione.  

Possiamo distinguere sostanzialmente due principali Fonti di capitale:

  1. 1) Il CAPITALE PROPRIO;
  2. 2) Il CAPITALE DI TERZI.

Il Capitale Proprio è costituito dal capitale che normalmente apporta la proprietà dell’azienda ed è un capitale che, in estrema sintesi, assume due forme principali:

  • - Il Capitale Sociale: capitale di lungo termine che, al limite, viene immesso in azienda senza dover essere restituito;
  • - I Finanziamenti da parte dei soci: forma di capitale che viene immesso in azienda da parte della proprietà per far fronte a necessità temporanee dell’azienda stessa. Proprio perché è la proprietà che decide di sostenere finanziariamente l’azienda, anche se i finanziamenti dovrebbero essere restituiti, questi finanziamenti potrebbero al limite anche essere considerati come una Fonte a medio-lungo termine.

Per la loro natura queste Fonti possono essere utilizzate in azienda per finanziare sia investimenti in immobilizzazioni sia investimenti in capitale circolante in quanto la finalità di tali fonti è proprio quella di “far funzionare” l’azienda.

Che cosa possiamo dire di queste due fonti. 

Innanzitutto, semplificando, il capitale sociale iniziale di un’azienda dovrebbe essere costituito da un ammontare di denaro sufficiente a far partire l’azienda e a sostenerne le necessità finanziarie che possono derivare dalla gestione della stessa. 

Il capitale sociale iniziale, quindi, dovrebbe servire per investire in attrezzature, macchinari e per far fronte a quei costi di gestione necessari affinchè l’azienda produca i propri prodotti e/o servizi che una volta rivenduti facciano rientrare almeno la liquidità investita nel capitale circolante ed in più producano un certo reddito utile a:

  • - ripagare una parte delle attrezzature/macchinari (che hanno un tempo di utilizzo più lungo) e
  • - remunerare l’attività svolta in modo, poi, da creare possibilmente un certo livello di autofinanziamento della società.

Ovviamente abbiamo semplificato di molto i concetti ma ci preme soprattutto evidenziare che anche in fase iniziale (adesso va di moda dire in fase di start up), quantificare le necessità finanziarie è assai importante perché altrimenti si rischia di partire già zoppi. Che succederebbe, infatti, se il capitale immesso inizialmente non fosse sufficiente a far fronte a tutte le necessità finanziarie?

Ecco perché prima di partire è fondamentale redigere un business plan ben ragionato. Il suo obiettivo principale è proprio quello di evidenziare le necessità finanziarie del business in modo da evitare spiacevoli sorprese in corso d’opera.

L’altra forma di capitale proprio è rappresentata dai Finanziamenti soci che, come abbiamo già detto, possono rappresentare delle iniezioni di liquidità necessarie per far fronte a emergenze più o meno temporanee dell’impresa oppure possono essere anche utilizzate per dar corso a dei progetti aziendali.

L’altra Fonte di capitale, altrettanto importante, è costituita dal Capitale di Terzi che può rivestire la forma di:

  • - Capitale bancario di medio-lungo termine;
  • - Capitale Bancario di breve termine;
  • - Finanziamenti/leasing vari da istituti finanziari;
  • - Credito concesso dai fornitori;
  • - Altre forme di credito concesso all’azienda.

L’ammontare di tutte queste voci rappresentano, di fatto, liquidità che l’azienda ha ottenuto da fonti diverse dai propri soci e, quindi, sono indice anche della credibilità che l’impresa ha avuto nell’ottenerli.

Chi concede credito all’impresa, ovviamente, lo fa a certe condizioni, normalmente rappresentate da:

  • - Ammontare del credito;
  • - Oneri finanziari sul credito concesso;
  • - Durata stabilita per la restituzione dell’importo;
  • - Oneri e clausole di salvaguardia accessori alla concessione del credito.

Anche il ricorso al capitale di terzi è assai importante per l’impresa perché capita che l’impresa, nel suo sviluppo, abbia la necessità di ottenere della liquidità che i soci magari non hanno a disposizione, oppure perché l’impresa ritiene che, grazie ad un’ulteriore immissione di capitale, sarà in grado di sviluppare ulteriore business capace non solo di restituire il capitale ottenuto a prestito e di pagare gli oneri relativi, ma di ottenere anche un extra utile per l’azienda stessa;

Si capisce bene, anche se abbiamo voluto semplificare al massimo certi concetti, come anche in questo caso le dinamiche aziendali che riguardano l’utilizzo, variabile nel tempo, di capitale proprio e capitale di terzi possano diventare molto complesse e tendano a sfuggire di mano, soprattutto al crescere delle dimensioni aziendali e al crescere, quindi, del numero e del volume delle transazioni che si mettono in pista.

Anche qui il nostro consiglio è quello di fare, quanto più possibile, tutti i ragionamenti necessari per mantenere i giusti equilibri nel tempo.

Ragionare in termini economici di marginalità di business e capacità di restituzione/remunerazione delle varie forme di capitale utilizzate è assolutamente essenziale, come è essenziale riuscire ad analizzare e programmare al meglio le necessità finanziarie dell’azienda. Solo ragionando ad ampio spettro e con cognizione di causa, infatti, si riuscirà a muoversi per tempo e a fare le mosse giuste. 

L’alternativa sarà quella di rincorrere continuamente l’emergenza senza capire da dove questa arrivi e, soprattutto, farvi fronte con strumenti poco idonei se non quando errati e controproducenti.

Lunedì, 12 Aprile 2021 19:04

Fare un upgrade del pensiero positivo

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Ottimisti contro pessimisti; pensiero positivo contro pensiero negativo; bicchiere mezzo pieno contro bicchiere mezzo vuoto, ecc. L'eterna epica battaglia tra due modi di vedere la realtà, ma in effetti si tratta solo di due parti impegnate a fare lo stesso gioco.

 

Il pensiero positivo è sempre stato associato ad una leadership efficace. Non a torto. È difficile guidare le persone se tutto ciò che riesci a vedere sono problemi, ostacoli, crisi e la legge di Murphy che imperversa. Questi pensatori negativi non riescono a gestire le loro vite, figuriamoci quelle di altri. Eppure i pensatori positivi e negativi hanno più in comune di quanto crediamo.

Intanto, vedono entrambi la realtà dalla stessa angolatura. Si dice che i pensatori positivi vedano il bicchiere mezzo pieno e che i pensatori negativi lo vedano mezzo vuoto. Certo, ma entrambi vedono il bicchiere da una certa distanza: sono entrambi "qui", mentre il bicchiere è "là". Ci rapportiamo con il mondo allo stesso modo. Che si sia ottimisti o pessimisti, vediamo il mondo come qualcosa di "altro" o di distaccato da noi, sebbene in modi diversi.

Può sembrare alquanto filosofico, ma le sue implicazioni pratiche sono piuttosto serie. Ammettiamo che si presenti un problema, tipo che vieni licenziato. Il pensatore negativo comincia a dare i numeri, giusto? Sarà preoccupato per come riuscirà a sbarcare il lunario senza lo stipendio e fosche immagini occuperanno la sua mente. Tuttavia, non ci aspetteremmo questa reazione da un leader, ti pare? Poiché un vero leader è un pensatore positivo che guarda sempre al lato rosa di qualsiasi situazione. In questo caso, riuscirebbe ad intravvedere nuove e migliori opportunità per se stesso e la sua famiglia. Che fico, non trovi?... O no?

La sola cosa che cambia qui è la reazione, non la prospettiva. Ci sono certamente risposte comportamentali anche molto diverse ad un evento indesiderato, ma il rapporto con il problema stesso non cambia. In entrambi i casi, le persone cercano di assumere un certo controllo emozionale su un evento inaspettato, sebbene uno associandosi al problema e preoccupandosi al fine di impegnarsi emotivamente nella ricerca di una soluzione; e l'altro dissociandosi dal problema per riuscire ad individuare delle alternative più efficaci. Non c'è dubbio che questa seconda soluzione sia più funzionale, ma entrambi mancano il bersaglio, qui, poiché nessuno dei due diventa il problema, cioè non si riesce a vedere la situazione dal punto di vista del... problema.

Mi rendo conto che suoni davvero strano, ma diresti che il problema vedrebbe se stesso come un... problema? O non si vedrebbe piuttosto come ciò che si rende necessario per indurre entrambe le parti a crescere, che è poi il motivo per cui ci troviamo tutti su questo pianeta? Il pensatore negativo ha certamente bisogno di un bel calcio nel sedere per scuotersi fuori dalla sua area di comfort emozionale e mentale... e il pensatore positivo? Vediamo: è forse davvero proattivo nel modo in cui gestisce la situazione? O sta soltanto reagendo a sua volta? Reattività e proattività sono concetti antitetici. Se il pensatore positivo è veramente proattivo, perché ha avuto bisogno di venire licenziato prima di decidere di esplorare nuove opportunità?

Il pensiero positivo è stato decisamente sopravvalutato finora. Il vero pensiero positivo non riguarda il vedere il lato positivo delle cose, ma l'immergersi negli eventi e guardando noi stessi mentre cerchiamo di dirci qualcosa. 

Questo richiede fede nel fatto che la vita, o la realtà circostante, lavora sempre per noi e che ci vuole aiutare ad ottenere un reale controllo diventando sempre più proattivi. Interpretiamo la "positività" in modo moralistico, vedendola come un sinonimo di "buono". In realtà, in natura, (nell'elettromagnetismo), "positivo" è solo un attributo che si dà al polo da cui parte il flusso di elettroni, mentre il polo negativo "attende" di ricevere tale flusso. Ne consegue che la positività ha a che fare con l'essere la causa, e quindi essere in controllo, che è ciò che il pensiero positivo dovrebbe aiutarci ad ottenere.

Credo che la nuova versione di pensiero positivo di cui sto parlando (Pensiero positivo 2.0) sia uno degli aspetti più importanti che un leader deve assimilare nel mondo di oggi. Infatti, molti leader efficaci lo stanno già usando e forse senza nemmeno esserne consapevoli. Di certo, si richiede di adottare un nuovo modello mentale e qualche linea guida da seguire.

1. Diventa il problema - Ne ho già parlato, quindi non voglio indugiare oltre. In sostanza, significa non cercare di andare controvento (contro il flusso), bensì di capire perché è sorto, quel problema, e cosa sta cercando di dirci.

2. Non cercare di influire sulla realtà, ma lascia che realtà influisca su di te - Le nostre reazioni emotive ci inducono sempre a cambiare qualcosa della nostra realtà, in un modo o nell'altro. Questo non è essere proattivi, men che meno positivi. Paradossalmente, è imparando (atteggiamento di ricezione, che è "negativo") dalla realtà che diventiamo sempre più proattivi (atteggiamento di dare, "positivo"), così come un buon seguace riesce a crescere imparando da un buon leader.

3. Sforzati di diventare un "contributore" - Contribuire è un altro modo di dire "dare". Contribuendo diventi automaticamente proattivo perché non devi aspettare che accada qualcosa per dare (mentre per ricevere devi aspettare). Ci sono decine di modi per contribuire. Puoi contribuire materialmente (offrendo denaro, opportunità, ecc.), emozionalmente (offrendo apprezzamento, gratificazione, rispetto, fiducia, ecc.), mentalmente (offrendo suggerimenti pratici, conoscenza, coaching, ecc.) o spiritualmente (instillando una cultura del contributo).

Non è così difficile fare un "upgrade" a questa nuova versione di "pensiero positivo", ma richiede certamente un notevole spostamento di paradigmi. Va bene. Finché sai in quale direzione devi andare, il viaggio è entusiasmante quanto la destinazione.

Ammesso che tu sappia quale sia la destinazione… ma questo è un altro discorso.

Mercoledì, 07 Aprile 2021 17:09

La Banca e l’accesso al credito

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Sentiamo sempre più spesso dire: “…le Banche non concedono più credito” o “…è sempre più difficile ottenere credito dalle Banche”.

A tali affermazioni rispondiamo con qualche domanda, seguita da alcune considerazioni. 

Innanzitutto, poiché l’interlocutore è quasi sempre un imprenditore, gli chiediamo se sarebbe disponibile a concedere una fornitura di merce o di un servizio ad un’azienda che gode di poca credibilità o per nulla attendibile; se sarebbe disposto a dilazionare il pagamento, anche se l’azienda fosse poco affidabile.

Ecco, la risposta che riceviamo è quasi sempre “NO!”. 

Con questa semplice riflessione spieghiamo perché molto spesso il “NO” ricevuto da una banca è probabilmente, anzi sicuramente, frutto di tre gravi mancanze: una discutibile reputazione (rating finanziario) del richiedente, una “forma” inadeguata con la quale si effettua la richiesta ed una mancanza di pianificazione in grado di garantire una sufficiente capacità restitutoria del credito richiesto.

Analizziamo quanto detto e cerchiamo di capire come si svolgono le dinamiche della richiesta di credito. 

Innanzitutto, vediamo di dare una prima definizione di rating: è un giudizio che viene espresso da un soggetto esterno all’azienda, sulle capacità di questa di pagare o meno i debiti. Le valutazioni comprendono vari aspetti, per esempio, al fine di comprendere la capacità che la società ha di fronteggiare il pagamento dei propri impegni finanziari, si valutano: i flussi di cassa, la redditività, il posizionamento sul mercato, l’indebitamento finanziario netto, ma anche aspetti qualitativi, quali l’affidabilità del management. Non mancano, inoltre, considerazioni di natura esterna alla singola società, come il contesto macroeconomico, perché è evidente che una cosa è operare in un’economia in forte espansione e un’altra è farlo in piena recessione.

Il rating bancario, cioè l’indice di solvibilità e affidabilità derivante dall’analisi sul comportamento e sull’uso degli strumenti finanziari, nonché la valutazione degli asset economico/finanziari dell’azienda, determina il merito creditizio, cioè quanto l’azienda è affidabile e quanto l’azienda è strutturata per garantire il rimborso del finanziamento. Per correttezza dobbiamo sottolineare che i rating di valutazione sono almeno due: il rating interno della Banca e il rating della Centrale Rischi prodotto da Banca d’Italia. 

Cercando di semplificare la spiegazione delle dinamiche di costruzione e funzionamento, il rating interno alla banca è definito principalmente dai volumi d’indebitamento e, soprattutto, dal comportamento sull’utilizzo degli strumenti finanziari concessi all’azienda dalla banca stessa. Il rating della Banca d’Italia viene elaborato e definito con dati aggregati, forniti ogni fine mese da tutti gli istituti di credito operanti con l’azienda. In altre parole, la Banca d’Italia raccoglie i dati di ogni singola posizione bancaria e li sviluppa in una forma aggregata, cioè raggruppando per strumenti omogenei, il comportamento dell’azienda. 

Del resto è anche lecito chiedersi, quanti imprenditori conoscono il proprio rating Bancario? Quanti conoscono le dinamiche per migliorare il proprio merito creditizio?

Parliamo ora della forma di comunicazione che spesso avviene tra l’azienda e l’Istituto Bancario. Siamo alla presenza di due realtà che parlano due linguaggi completamente diversi, sia per cultura che per concezione temporale. L’azienda richiede finanza o per esigenze di liquidità (presente) o per finanziare un’attività, per un progetto di miglioramento nei processi produttivi/commerciali o per lo sviluppo del proprio business (futuro). La Banca valuta la concessione di credito sulle “credenziali” dell’azienda, ovvero sulla base dell’analisi dei dati storici (passato).

I bilanci, in particolare, dovrebbero essere espressione del valore delle aziende e, sulla base di tale valore, le Banche dovrebbero essere in grado di valutare (rating) quanta fiducia concedere loro in termini di credito. Il condizionale è d’obbligo in quanto, ciò che prima aveva un valore sulla base del quale concedere del credito (i, così detti, Beni Materiali: il capannone, il magazzino, i macchinari ecc.), oggi, in realtà, non sembra più essere indicatore di quanto un’impresa sia affidabile e ci si è accorti di quanto tale sistema di valorizzazione e di valutazione sia risultato fragile e fuorviante. Ne deriva che gli elementi storici non solo non sono così determinanti per la valutazione e concessione di credito, ma sono addirittura insufficienti.

Oggi assumono un’importanza fondamentale in questo senso i Beni Immateriali come ad esempio:

  • - I marchi, i brevetti, la qualità dei reparti R&D e Progettazione;
  • - Il capitale Intellettuale dell’azienda, composto dalla qualità delle persone interne all’organizzazione e dei professionisti esterni di supporto all’impresa;
  • - La Vision, la Mission ed il Modello di Business dell’impresa;
  • - La concezione del prodotto;
  • - Le strategie di Marketing, l’efficacia della comunicazione e l’individuazione corretta dei target di clienti;
  • - La rete commerciale, l’accesso ai mercati e la capacità di recepire le loro esigenze;
  • - I servizi al cliente;
  • - La finanza e la gestione dei flussi di cassa.

Sono questi tipi di Investimenti e di accorgimenti che danno un valore alla struttura in Beni Materiali (il capannone, il magazzino, i macchinari, ecc.), in quanto permettono a quest’ultimi di lavorare nel futuro e di creare reddito. È la capacità dell’azienda di produrre reddito che diventa il principale focus e la vera garanzia per la banca di concedere credito in “sicurezza”. 

Comunicare tutto questo ad un sistema bancario, ancora oggi legato a processi di valutazione e di affidamento basati esclusivamente sui dati storici, e riuscire, invece, a trasferire le potenzialità di generare ulteriori profitti dall’iniziativa oggetto per la quale si richiede un finanziamento, non è per nulla semplice. 

Anche la Banca si deve aggiornare ed evolvere nei propri parametri e strumenti di valutazione. Non basta più un’analisi di tipo quantitativo sul passato o sul presente dell’azienda; le semplificazioni numeriche (i bilanci e le relative analisi) non sono in grado di evidenziare appieno i rischi dell’azienda e, soprattutto, non forniscono informazioni su un possibile futuro delle imprese. Dunque, i rischi latenti per gli Istituti di Credito aumentano in modo proporzionale all’aumento della complessità della realtà e lo dimostrano i crescenti dati relativi alle posizioni di sofferenza e, soprattutto, la velocità di degenerazione delle posizioni delle imprese clienti. Da qui la difficoltà a misurare l’effettivo grado di rischio per ogni impiego e, soprattutto, la mancanza di strumenti d’ allerta e controllo sull’evoluzione delle attività per le quali è stato erogato il credito. 

Serve una “nuova figura” che affianchi l’Istituto di Credito (rappresentato dal gestore), da un lato per completare l’analisi quantitativa delle aziende clienti con un’analisi che non può essere altro che di tipo qualitativo, e dall’altro che fornisca anche un servizio di monitoraggio/guida, rispettivamente utili sia per l’istituto che per l’azienda.

 

In questo modo si raggiunge per l’Ente erogante un duplice risultato: avere un quadro maggiormente dettagliato sul modello di business rappresentato dall’azienda richiedente ed una costante relazione sull’evoluzione del progetto finanziato, rispetto anche alla possibilità prospettica d’ insorgenza di criticità. 

A seguito delle precedenti considerazioni, possiamo indicare come unica soluzione utile ad uscire da questo cul-de-sac, una evoluzione del rapporto Banca/Azienda attraverso l’intervento di un soggetto terzo in grado di elevare la sicurezza della prima e l’affidabilità della seconda.

In altre parole, se non si attivano tutte quelle azioni che consentono di migliorare il RATING FINANZIARIO dell’azienda e non si formula la richiesta attraverso una comunicazione proattiva del PIANO STRATEGICO DELL'IMPRESA (che ne garantisca la continuità attraverso uno specifico e attento PIANO ECONOMICO- FINANZIARIO, il Business Plan, da parte dell’azienda), e la banca non rivede il modello di valutazione – analisi, monitoraggio e controllo – l’incontro tra domanda e offerta di credito sarà sempre più difficile e la risposta sarà, inesorabilmente, un “NO!”.

In ambito finanziario il Sistema Bartners ha, fra le altre cose, anche queste finalità: migliorare la comunicazione della strategia economico-finanziaria dell’Impresa in senso qualitativo, oltre che quantitativo e in maniera prospettica, seguendo l’evoluzione dell’attività oggetto di finanziamento, ponendo in essere un monitoraggio costante, al fine di mantenere aggiornato il flusso d’informazioni con l’Istituto di Credito e assicurare la sostenibilità del finanziamento, anche qualora l’evoluzione dello stesso incontrasse momenti di difficoltà e/o criticità da risolvere. Infatti, essendo una prerogativa del Sistema Bartners quella di trovare tempestivamente soluzioni mirate alle necessità che di volta in volta possono insorgere, ogni progetto può essere sostenuto e accompagnato nella sua realizzazione grazie ad innovativi protocolli operativi.

Si tratta, dunque, di una garanzia per entrambe le parti: la banca può finanziare l’azienda ponendo in essere nuovi strumenti di analisi, di valutazione e di controllo; l’azienda può essere finanziata con la sicurezza di raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati con il supporto di un Partner operativo.

Ecco perché molto spesso la risposta finanziaria che riceviamo a fronte di un progetto sostenuto da Bartners è: “SI!”.

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