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Si discute spesso sulla domanda se la leadership possa essere o meno insegnata. Come spesso capita in questi casi, si sono formate due correnti di pensiero opposte. Come spesso accade, però, la realtà è un pelino più complessa di così.
Assumere posizioni bianco-o-nero su una questione è un atteggiamento meccanicistico comune. La realtà non è mai così “tranchante”, specialmente per quanto riguarda la leadership.
A mio avviso, la leadership non è qualcosa con cui si nasce o che possa essere imparata, ma piuttosto qualcosa che accompagna la nostra crescita. Naturalmente, è possibile trasferire qualche modello e qualche atteggiamento basilare di leadership, ma poi devi confrontarti di tanto in tanto con l'innegabile senso dell'umorismo della vita.
Nessun programma o scuola di formazione o coaching può prepararti per ciò che la vita ha in serbo per te. E se hai forti tratti caratteriali, come il focus o la determinazione, essi possono aiutarti a gestire un qualche evento inaspettato che si presenta nella tua vita e nei tuoi affari, ma spesso ti lascerà confuso e senza la minima idea sulla migliore strategia da adottare in quella situazione.
Ed è qui che entra in ballo la vera leadership. Conosco decine di diversi modelli di leadership, ma credo che esista un solo vero stile di leadership ed è la Leadership… Improvvisata, dove prendi qualunque cosa che hai imparato e tutte le tue risorse interiori per affrontare avvenimenti impossibili da prevedere... ed è così che cresciamo. Fortunatamente, non ci sono poi tanti accadimenti di questo tipo nelle nostre vite, forse 2 o 3, ma sono quelli che ci formano.
I soli riferimenti che un leader può aspettarsi di avere per capire come gestire accadimenti imprevisti sono le leggi della Natura, che chiamiamo anche principi. E' tutto ciò che abbiamo, ma basta e avanza. Voglio condividere con te un paio di esempi di Leadership Improvvisata: uno si riferisce al passato, mentre l'altro al... futuro!
L'esempio preso dal passato riguarda Gesù Cristo, notoriamente cresciuto in un ambiente giudaico che aderiva a strettissimi codici e leggi religiosi. Il problema non è l'Ebraismo, evidentemente, ma il modo in cui le persone tendono ad ingabbiarsi in interpretazioni distorte delle leggi divine e lo stesso Cristianesimo non fa eccezione. Ebbene, Gesù era stato accusato di aver mangiato del pane consacrato (riservato ai soli preti), di sabato, e di averne perfino dato a chi era con lui. A tali accuse, egli rispose che "il sabato è stato fatto per l'uomo, e non l'uomo per il sabato" (Marco 2,26-27)
Apparentemente, nessuno prima di lui si era azzardato a ribaltare uno dei concetti più sacri dell'Ebraismo, cioè lo Shabbat (il sabato), ed erano previste serie conseguenze per coloro che osavano violarlo. Eppure, questo è esattamente ciò che ha fatto Gesù. E' forse perché era un ebreo poco osservante? Niente affatto. In effetti, il Vangelo lo presenta come un ebreo molto zelante nel rispetto dei precetti ebraici, ma metteva l'Uomo prima della Legge. Secondo lui, è la legge a dover servire l'uomo e non il contrario. Ed è così, il più delle volte, ma se una legge entrava in conflitto coi migliori interessi dell'uomo, Gesù avrebbe scelto l'uomo senza la minima esitazione.
Non intendo discutere qui su chi avesse ragione, se i sacerdoti che cercavano di difendere la legge o Gesù che le dava un nuovo significato: lascio volentieri la questione all'analisi dei teologi. Il modo in cui Gesù ha reagito alle accuse di contravvenire alla legge è ciò su cui intendo focalizzarmi. La tradizione ebraica aveva tirato una linea e Gesù ha cancellato quella linea per tirarne una nuova. Ma da dove arriva tutto questo? Chi gli ha detto di fare ciò che ha fatto o che lo potesse perfino fare? Non aveva nulla a cui riferirsi a parte il fatto che sapeva che se il lavoro dei sacerdoti era quello di servire la legge, la sua missione era invece quella di servire l'uomo. Così ha… improvvisato.
Ma è davvero ciò che ha fatto?
E ora al futuro. Nel prequel di "Star Trek", di J.J. Abrams, al giovane Capitano Kirk, come anche a molti altri comandanti di astronavi della Federazione, viene chiesto di sottoporsi ad un test (il famoso/famigerato test "Kobayashi-Maru") per accertare la sua capacità di gestire una situazione disperata. Nessuno era mai riuscito a superare quel test ed era altamente probabile che non ci riuscisse nemmeno il Capitano Kirk. Ma lo ha fatto. Come? Ha imbrogliato! Aveva trovato il modo di alterare il software di simulazione e così è passato. Naturalmente, ha subito un processo per questo e la sua linea di difesa era che non poteva accettare il fatto di dover affrontare una situazione senza via di scampo: c'è SEMPRE una via d'uscita!
L'ancora non tanto buon amico vulcaniano, Spock, cerca di spiegargli che lo scopo del test era quello di mettere i futuri comandanti in una situazione dove si sarebbero dovuti preparare all'eventualità della sconfitta, senza alcuna possibilità di fuggirle. Ancora una volta, il Capitano Kirk non può ammettere una tale inaccettabile ipotesi. Nuovamente, qualcuno ha tirato una linea e qualcun altro ha deciso di spazzarla via e tirare la propria. Diversa era storica, diversa ambientazione, diversa circostanza, ma la stessa situazione: trovarsi a dover spingere oltre gli standard di pensiero generalmente accettati.
La Leadership Improvvisata non è in alcun modo la proposizione dell'ennesimo modello di leadership. L'ho inventata di sana pianta appositamente per questo articolo e, semmai, va oltre qualsiasi modello. Ha più a che fare con un atteggiamento che mira a stabilire nuovi schemi di pensiero. Ora, questo non può essere insegnato e non ha nemmeno a che vedere coi nostri geni. Ma non lasciarti ingannare dal termine "improvvisazione", che viene solitamente associato all'intuito, alla creatività od all'impulsività. Sia Gesù che il Capitano Kirk hanno effettivamente improvvisato, nel senso che hanno dato una loro risposta estemporanea che sembrava non avere alcun legame con qualsiasi cosa vista, sentita o perfino contemplata prima.
Solo in apparenza, però. In effetti, la loro risposta era tutto fuorché improvvisata, poiché si riferivano entrambe a principi eterni. Per Gesù era il primato dell'Uomo su qualsiasi altra cosa; per il Capitano Kirk è stato l'indomito spirito dell'Uomo che si rifiuta di soccombere alle avversità, spingendo sempre oltre. Da dove arrivano questi principi? Ci sono sempre stati e questi due uomini hanno semplicemente ricordato a noi gente "ordinaria" che siamo e valiamo molto più di quello che ci è stato fatto credere.
E non è questa l'essenza della leadership?
Il trasferimento di un bene, mobile od immobile, materiale od immateriale che sia, per poter essere riconosciuto e certificato come attendibile dal resto delle persone, deve essere gestito da un ente terzo, autorevole e riconosciuto dal gruppo sociale di riferimento, in grado di attestare l’oggetto e la validità di quello scambio.
Questi Enti sono diventati nel tempo la forma istituzionale per eccellenza per attestare tali operazioni, come ad esempio banche e studi notarili tra gli altri, la cui autorevolezza risiede in buona parte nel gestire l’accesso ad un registro nel quale le transazioni vengono memorizzate.
Tuttavia, con l’avanzamento tecnologico, sono arrivate molte soluzioni che supportano le attività quotidiane e, grazie a queste innovazioni, si sono manifestate anche delle opzioni alternative ai tradizionali sistemi di scambio, opportunità che potremmo definire come transazioni su “blockchain”.
Il termine inglese blockchain, infatti, significa letteralmente “catena di blocchi” e permette, in modo intuitivo, di comprendere quale sia l’architettura portante di questa tecnologia informatica. Per semplificare, i blocchi o nodi sono definiti come potenzialmente un qualsiasi dispositivo elettronico, ad esempio un personal computer, dotato di software in grado di elaborare informazioni nello stesso protocollo usato dal resto del sistema e connesso ad internet, in modo da poter scambiare dati con altri nodi. I blocchi della catena fanno parte di una rete più ampia, composta da altri blocchi aventi tra di loro le stesse possibilità di agire su una determinata transazione.
Queste transazioni vengono certificate, ad esempio, attraverso un “registro condiviso“ che le memorizza e le rende disponibili ad altri nodi. Un protocollo di supervisione, autorevole e super partes, consente di validare l’informazione e renderla attendibile.
Ecco, quindi, che con l’aiuto della tecnologia è possibile avvalersi di un sistema di regolamentazione degli scambi, non centralizzato, e talmente sicuro al punto che, di fatto, non è possibile forzare o scardinare, se non creando un blackout globale per l’intera rete. Scenario assolutamente improbabile.
La blockchain ha supportato, fin dagli albori, il mondo delle criptovalute, tant’è che, ad oggi, i dati di coinmarketcap.com riportano più di 7500 criptovalute basate su tecnologia blockchain attualmente attive, di cui più di 4000 liberamente scambiabili.
Per criptovaluta si intende un tipo di valuta virtuale che si basa su un protocollo di scambio peer-to-peer, letteralmente “alla pari”, ovvero una rete composta da nodi aventi tutti le stesse proprietà (peers), e, quindi, tecnicamente sprovvista di nodi gerarchicamente superiori ad altri.
Le tecnologie blockchain hanno fin da subito attirato l’attenzione essenzialmente per due proprietà: la potenzialità di essere svincolati da sistemi centrali, come quelli tradizionali, e la sicurezza offerta dalle piattaforme che le implementano.
Questi due aspetti, in antitesi tra di loro solo apparentemente, sono in realtà il punto di forza che rende questa tecnologia appropriata per una moltitudine di utilizzi. Oltre alle criptovalute, quindi, è possibile usare la blockchain anche per altri scopi, come, per esempio, nuovi protocolli di comunicazione.
Seppur originariamente la blockchain poteva essere percepita come misteriosa e criptica, recentemente è stata rivalutata la sua vera potenzialità, tant’è che molte istituzioni governative così come alcune delle più importanti aziende informatiche hanno adottato questa tecnologia per potenziare i loro progetti di sviluppo.
A dimostrazione di quanto detto, da una ricerca del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano, “Blockchain: the hype is over, get ready for ecosystems”, emerge una situazione internazionale decisamente in crescita per quanto riguarda l’utilizzo e l’implementazione di soluzioni blockchain a livello mondiale.
Infatti, il mercato si sta spostando da una fase di “hype”, ovvero aspettative inflazionate, ad una più stabile ed adeguata allo sviluppo di sistemi utili e sicuri.
Basti pensare ai progetti promossi negli ultimi tre anni nel nostro paese che ammontano a circa 68 milioni di euro investiti, che con diverse soluzioni di blockchain vanno a supportare diversi settori, quali finanza, agrifood, logistica, telco, assicurativo-assistenziali e automotive.
L’osservatorio del Politecnico, inoltre, evidenzia come l’Italia sia già posizionata nei primi posti della classifica dei paesi che vantano il maggiore numero di iniziative basate su blockchain a livello mondiale, e in larga parte (59% dei volumi investiti), nel campo della finanza.
In questo contesto, l’attività promossa da Bartners si avvale della tecnologia blockchain al fine di dare valore e certificazione ai processi e agli accordi commerciali sviluppati all’interno del proprio Sistema, garantendo la massima trasparenza alle operazioni effettuate dalle aziende partner.
Con l’implementazione di questo innovativo e consolidato sistema di certificazione, Bartners, avvalendosi dell’utilizzo di una blockchain basata su smart contracts, consente, quindi, alle aziende partner di avvalersi di strumenti economici all’avanguardia, consentendo loro di svincolarsi dagli attuali limiti delle soluzioni offerte da altri enti e supportare lo sviluppo di sinergie con altre aziende referenziate, agevolando così nuovi scambi commerciali e migliorando il modo di fare business.
Desiderare è il livello seminale di tutti gli obiettivi e le realizzazioni, nonché di gran lunga l'attività più comune tra gli esseri umani. Tuttavia, se questo seme è corrotto, lo sarà anche tutto ciò che ne segue.
Ho letto tonnellate di letteratura riguardante il raggiungimento di obiettivi, ma stranamente, molto poco (o nulla) sul determinare i desideri. Sappiamo che determinare e raggiungere obiettivi è una competenza che possiamo tutti imparare ed è già stato detto molto in proposito. Al contrario, la maggior parte di noi crede che desiderare sia qualcosa di naturale ed istintivo, ma per quanto possa sembrare strano, imparare a desiderare è di fatto anch'essa una competenza, esattamente come mangiare bene, bere bene, respirare bene e così via.
Avendo lavorato con centinaia di persone di ogni tipo, ho potuto verificare che uno dei maggiori problemi che ci affliggono un po’ tutti è la scarsa competenza nel desiderare che ci induce ad esprimere desideri che risultano incomprensibili per la nostra mente, che non è poi in grado di darvi seguito.
Se il seme che pianti per far crescere un albero da frutto è geneticamente o altrimenti corrotto, poco importa se la luce solare inonda perfettamente la pianta, quanto sia perfetto il livello di umidità, quanto ricco di minerali possa essere il terreno… finirai per avere un albero con frutti corrotti. Analogamente, essendo un desiderio il seme per qualsiasi realizzazione, se è corrotto a livello basilare, l’obiettivo conseguente rifletterà quella corruzione: è inevitabile.
Sono molti gli sbagli che le persone commettono quando desiderano realizzare un qualche tipo di stato, sia esso di natura economica, professionale, emozionale, intellettiva o spirituale e se sei, ad esempio, un executive coach o un leader aziendale, non ti farebbe forse comodo sapere quali siano tali errori per aiutare coloro che assisti? Questo, però, occuperebbe troppo spazio e troppo tempo in questa sede, quindi qui ti parlerò di uno tra i più importanti, che è quello di desiderare negativamente.
Il termine "negativo" viene solitamente associato a qualcosa di sbagliato o di moralmente discutibile, ma non in questo caso. Qui, il termine si riferisce al fatto che questo tipo di desideri nega il desiderio stesso. In altre parole, il desiderio viene annullato, e quindi corrotto, a causa di come viene formulato.
Possiamo suddividere i desideri negativi in tre categorie. La prima categoria si focalizza su ciò che le persone "NON" vogliono. Sono in effetti quelli più ovvi ed è facile individuarli. Le persone inseriranno palesemente la parola "NON" nel desiderio, come "Non voglio più essere trattato come uno zerbino", o "Non voglio che mia suocera s’intrometta nella nostra famiglia". In alternativa, utilizzeranno verbi che, anche se espressi positivamente, palesano l'intenzione di interrompere un'abitudine o uno schema, tipo "Voglio smettere di fumare" o "Devo cambiare la mia situazione economica".
Il problema con questi desideri è che continuano a focalizzarsi proprio su quella cosa di cui le persone vogliono liberarsi. La nostra mente lavora sulle immagini, non sulle parole; pertanto, negli esempi dati sopra, continuerà a vedere zerbini, suocere, sigarette e precarietà economica, pensando "Ehi, amico, visto che ci pensi così tanto, ti deve proprio piacere questa roba, vero? Bene, divertici, allora!". Ad essere onesti, non è una conclusione proprio così bislacca e, pertanto, il solo modo che ha la nostra mente di cambiare binario è quello di dirle esattamente dove vuoi effettivamente andare e, così facendo, aiutarla a creare nuove immagini su cui possa lavorare.
La seconda categoria di desideri negativi si focalizza su immagini molto vaghe e nebulose, tipo "Voglio sentirmi e stare bene", "voglio avere successo", “voglio diventare una migliore versione di me stesso". D'accordo, c'è tanta bella roba, espressa positivamente, ma non funziona. Perché? Perché l'immagine che producono queste parole è o nebulosa o lascia alla tua mente decidere quale immagine deve creare per te. Ne consegue che non hai controllo sul tuo desiderio e sei costretto ad essere condotto dovunque quell'immagine decida.
In questo caso, le persone devono essere addestrate ad essere più precise nel formulare il loro desiderio, affinché creino un'immagine forte verso la quale andare. Puoi aiutarle in questo ponendo loro delle domande che le faccia focalizzare sui risultati desiderati, tipo "Quali sono le cose che ti fanno sentire bene?" o "Come ti vedi come persona di successo?" o ancora "Come descriveresti questa migliore versione di te stesso?". Naturalmente, puoi scendere a diversi livelli di profondità e fornire alle persone del prezioso materiale su cui lavorare.
Chiamo questa terza categoria di desideri negativi "falsi positivi". Vengono espressi positivamente e forniscono una chiara immagine di ciò che le persone cercano... MA, li portano comunque a focalizzare su ciò da cui vogliono allontanarsi. "Voglio avere maggiore tranquillità nella mia vita" ne è un esempio. Volere tranquillità significa che non ne hanno molta in questo momento. E COSA hanno, invece? Ecco l'immagine che le persone hanno in testa. Un altro esempio sul lavoro è "Ho bisogno di una forza vendite più motivata". Perché? Cosa non va con il livello di motivazione attuale? Cosa manca?
Questa negazione del desiderio è un po' più difficile da riconoscere, ma con un pizzico di empatia ed interrogando quei desideri, sarai in grado di capire dove si trova il vero focus. Per cambiare focus devi cambiare prospettiva, trasformando un bisogno in autentico desiderio, ponendo domande quali "Cosa apporterebbe nella tua vita una maggiore tranquillità?" o "In che modo ne beneficerebbe la tua azienda con una forza vendite più motivata?" Vedi? Tranquillità e motivazione non sono più la vera questione, adesso, bensì cosa ne verrebbe fuori da esse ed è così che porti le persone da uno stato "attuale" ad uno stato "desiderato".
Ora che i desideri sono "corretti" puoi lavorare sul raggiungimento degli obiettivi, sapendo esattamente dove devi portare le persone (o te stesso) affinché possano sentirsi e "performare" meglio. Ci sarebbe ancora molto altro lavoro, ovviamente, ma questo è certamente un buon posto da cui iniziare per lavorare efficacemente sulla determinazione dei desideri.
Perché è così difficile essere “autentici”?
Scritto da Alessandro CarliSe qualcuno dovesse chiedercelo, la maggior parte di noi dichiarerebbe che noi siamo esattamente ciò che sembriamo: ciò che vedi è ciò che sono! Ma è davvero così? E come fai a saperlo? Essere noi stessi è molto più difficile di quanto pensiamo. Soprattutto sul lavoro.
Nessun rapporto è possibile tra persone che indossano maschere, per il semplice motivo che ci stiamo relazionando con un'illusione. Eppure, la maggior parte dei rapporti si fonda proprio su questa condizione. Ed è proprio sul luogo di lavoro, o negli affari in generale, che l'opacità regna sovrana. Poiché si pensa che non vi sia un reale bisogno di costruire rapporti forti e profondi, perché darsi la pena di essere "veri" e rischiare di diventare vulnerabili?
Ancora oggi, in molti casi si parte dal presupposto che l’autenticità in azienda sia un lusso superfluo, così come costruire un forte rapporto tra colleghi di lavoro: rispettare il nostro ruolo e fare il nostro lavoro come si deve è tutto ciò che ci viene richiesto e, paradossalmente, l’autenticità potrebbe perfino essere d’inciampo. Inoltre, si ritiene che essere se stessi potrebbe renderci più vulnerabili, andando ad indebolire la squadra nel suo insieme.
Intanto va chiarita una cosa e cioè... cosa significa essere "se stessi"? Senza perderci in elucubrazioni intellettuali, alla fine, è una questione di desiderio: cosa vogliamo per noi stessi dal nostro lavoro? Come intendiamo e vogliamo contribuire al benessere dell'azienda e delle persone che ne sono coinvolte? In che modo il nostro lavoro ci chiede di usare i nostri talenti, le nostre risorse, le nostre capacità per aiutarci a performare al meglio? In che modo il nostro lavoro ci dà uno scopo ed una direzione che abbiano un senso per noi? Come ci aiuta a crescere?
Se ti senti libero di operare in funzione delle risposte che dai a queste domande, allora sei in linea con la tua natura. In caso contrario, vuol dire che ci sono tre ostacoli importanti alla tua piena espressione.
Il primo ostacolo riguarda le aspettative esterne. Questo fattore esercita un'enorme pressione sulle persone, dacché vengono istruite ad eseguire un incarico che è loro affidato e niente più. I collaboratori non si vedono come risorse che, se ben guidate e gestite, possono produrre fatti e risultati straordinari, bensì come strumenti ad uso e consumo del leader/manager.
Ruoli ed incarichi sono un'invenzione "meccanicistica" che alla fine svilisce la collaborazione. Un martello è un martello e mi aspetto che faccia il martello e nient'altro: questo funziona. Un individuo, però, è molto più complesso e all'interno di un contesto sistemico non può essere visto e trattato come un asset immutabile. Questo è ciò che succede, però, ed è piuttosto doloroso per chiunque deludere gli altri sulle aspettative che hanno su di noi. Il che ci porta al secondo ostacolo, che è la
Visione interna. Per aderire alle aspettative che gli altri hanno su di noi, tendiamo ad adeguarci al ruolo che ci viene affibbiato. Interpretiamo molti ruoli nella vita; il marito/moglie, il genitore/figlio, il cittadino rispettoso e così via. Immaginati in una situazione di compravendita: vedrai l'enorme differenza tra quando sei tu a vendere qualcosa rispetto a quando compri.
Ci adeguiamo alle convinzioni e ai valori ai quali scegliamo di aderire e non possiamo eludere questo processo. Diventa però un problema quando formiamo una visione di noi stessi che si conforma al ruolo che abbiamo creato ed è così che costruiamo le sbarre della prigione.
Il terzo ostacolo è l'opportunismo. Miriamo tutti ad uno di due risultati: evitare dolore e ricercare piacere. Le conseguenze di questo sono piuttosto evidenti e cercheremo sempre di indossare la maschera più adeguata per una determinata situazione, in modo tale da produrre per noi il minor numero di problemi e i più alti benefici.
Questo meccanismo interno è così sottile ed istintivo che non siamo neppure in grado di rilevarlo. Quindi, sebbene ci piaccia credere di essere autentici, il nostro comportamento è del tutto opportunistico. Se fossimo veramente autentici, il nostro comportamento sarebbe sempre lo stesso, a prescindere da contesti e situazioni.
Hai notato che siamo noi, e non gli altri, a creare gli ostacoli per noi stessi? La pressione psicologica in certi ambienti può essere molto forte, ma alla fine siamo noi a caderci più o meno volontariamente. Imparare ad essere autentici è un processo che dura un'intera vita e, paradossalmente, questi ostacoli sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per impegnarci seriamente ad esso. Ecco come.
Diventare consapevoli dei ruoli che adottiamo - Se non decidessimo di indossare maschere non potremmo mai diventare consapevoli dei ruoli che interpretiamo nelle nostre vite. Se noti delle incoerenze comportamentali nei diversi ambiti della tua vita (es. al lavoro sei in un modo e a casa in un altro), è molto probabile che stai indossando maschere in funzione di ciò che ti conviene. Questo è normale, non è niente di cui sentirsi in colpa e diventarne consapevole ti dà l'opportunità di correggerti.
Accettare e superare la vergogna - Il sentimento di vergogna viene fuori quando violiamo i nostri stessi valori. Essere autentici (onestà, trasparenza, ecc.) è un valore che la maggior parte delle persone condivide e, pertanto, provare vergogna perché abbiamo tradito noi stessi è un buon segno! Ci motiva a non perseverare in un determinato comportamento… purché non ci lasciamo sopraffare dalla vergogna! E' inutile strapparci i capelli: appena una briciola di vergogna è tutto ciò che serve.
Fidarsi della pancia - In qualsiasi situazione, sappiamo sempre cosa dovremmo fare, poiché siamo tutti creature etiche. È quando ci rifiutiamo di dare ascolto alla vocina che viene dalla pancia e lasciamo che siano gli istinti a sopraffarci per motivi egoistici che diventiamo falsi. Imparare a dare ascolto alla vocina e fidarci di essa promuove una straordinaria crescita personale.
Diventare autentici è un processo molto lungo e di certo il più ostico. Per giunta, le aziende difficilmente lo appoggiano a causa delle false convinzioni a cui accennavo prima. Si ritiene che il conformismo e l'adozione dei ruoli rendano l'azienda più controllabile: ne dubito, ma è certo che blocchino creatività e flessibilità, rendendo tali aziende paradossalmente più vulnerabili, sia dentro che fuori.
La trasparenza favorisce le relazioni più vere e rafforza le squadre, rendendo più facile risolvere i problemi ed affrontare le sfide del mercato. Per "default", nessuno di noi è veramente autentico, poiché siamo incapaci di vedere i benefici nell'essere tali nel breve termine. Le cose, però, stanno cambiando e molto velocemente e questo autorizza ad un cauto ottimismo.
Alla fine, tutto si riduce ad una semplice domanda: “sei tu il tipo di persona con la quale vorresti lavorare e di cui avresti totale fiducia?”
Non avere fretta a rispondere.
Intelligenza Artificiale al servizio del “Problem Solving”
Scritto da Redazione BartnersNegli ultimi anni si è sentito parlare sempre più spesso di Intelligenza Artificiale e delle sue numerose applicazioni. Tale tecnologia ha fatto passi da gigante, divenendo sempre più importante per moltissime imprese, basti pensare alle trasformazioni che sta portando ai processi economici e sociali.
Le società che stanno applicando questa nuova tecnologia informatica sono in grado di cambiare profondamente le logiche e le dinamiche dei precedenti modelli di business. La gestione delle Banche Dati, unitamente a programmi di A.I., consentono di aumentare esponenzialmente la velocità e la precisione della ricerca, generare nuove concezioni (basate su una mole importante di dati, per delineare nuove strategie operative), ridurre o gestire l’errore umano, ed, infine, ottimizzare i processi produttivi, per esempio implementando sistemi di manutenzione predittiva che sfruttano algoritmi di apprendimento automatico (machine learning), riducendo l’impatto di eventuali guasti o malfunzionamenti.
Tutto questo migliora le performance delle aziende che adottano questo nuovo paradigma, permettendo un supporto efficiente, adattivo e preciso sia sul piano strategico che su quello operativo.
Da un certo punto di vista la A.I. potrebbe essere associata al timore che questi nuovi sistemi prendano il sopravvento sui metodi e processi lavorativi tradizionali, rendendo alcune occupazioni superflue o facilmente sostituibili. Questo, tuttavia, non dovrebbe costituire motivo di preoccupazione, dal momento che questi sistemi vengono progettati, di fatto, come un supporto alle persone e non come uno strumento per rimpiazzarle, dando, di conseguenza, vita a nuove opportunità lavorative, organizzative e commerciali, a patto che, contemporaneamente allo sviluppo tecnologico, ci sia la volontà di far crescere, attraverso specifici programmi formativi, anche le competenze dei nuovi operatori da impiegare.
Una forte accelerazione in questa direzione, quasi senza precedenti, è stata data dalla comparsa del Covid-19. Infatti, quasi tutte le Software House hanno subito iniziato a pensare, e poi a rendere disponibili, nuove soluzioni informatiche per poter lavorare da remoto, gestire riunioni virtuali con colleghi e clienti (o potenziali tali), in un'ottica non solo di sicurezza individuale, riducendo di fatto le possibilità di contagio, ma anche rendendo disponibili strumenti di connessione che fino a quasi ad un anno fa non erano ancora stati pensati e/o potenziati come li conosciamo oggi. Pensiamo, solo per fare un semplice esempio, ai web-meeting e alle loro evoluzioni, con Zoom in primis, per potersi confrontare in una riunione con più partecipanti.
Tornando all’impiego della A.I. in ambito lavorativo, è chiaro che la possibilità di incamerare, ricercare, confrontare, associare ed abbinare un’enorme mole di dati, attraverso precisi algoritmi logici o di calcolo, o comprendere in modo semantico una richiesta e dare una precisa risposta, diventa una risorsa determinante per aumentare potenzialmente qualsiasi tipo di performance professionale.
Ma perché l’intelligenza artificiale è così significativa per Bartners?
Bartners, fin dalla sua concezione ed in un'ottica decisamente lungimirante, ha puntato su questa ultima frontiera tecnologica, per realizzare un nuovo sistema economico basato sulla referenzialità commerciale, ovvero abbinare alle svariate esigenze di approvvigionamento aziendale, le rispettive soluzioni proposte da aziende altamente profilate, quindi riconosciute e calibrate per le specificità di intervento. Portare in tempi rapidi una precisa soluzione ad un fabbisogno attraverso un’Azienda specializzata è, infatti, la principale missione del Sistema. Diventa facile pensare, dunque, che Bartners è in grado di rappresentare, con la sua organizzazione, la prima struttura di Problem Solving Industrializzato, in grado d’ individuare per ogni tipo di problematica il giusto interlocutore, esclusivamente referenziato, in grado di portare le più adeguate risposte.
Nel caso specifico, l'A.I. rivoluziona la ricerca del fornitore idoneo, individuando fra le aziende appartenenti al Sistema Bartners, e rispondenti alle caratteristiche richieste, quella più qualificata a portare la giusta soluzione alla necessità espressa. Attraverso l’intervento di un professionista, chiamato Business Miner, la parte richiedente viene messa in contatto con la parte offerente consentendo un matching diretto e mirato tra le esigenze palesate da un'impresa e le soluzioni, quali servizi o prodotti proposti da un'altra impresa, in modo da far iniziare loro una collaborazione e originare una nuova sinergia, e supportandoli dove necessario.
In cosa si traduce questo?
Per Bartners è molto semplice: ridurre i tempi di risposta, individuare fornitori referenziati, quindi seri, qualificati e affidabili, presentando soluzioni innovative al cliente e permettendogli di affidarsi ad un partner commerciale unico nel suo genere.
Chiaramente l'A.I. attuale e futura resta, per quanto evoluta, un software e, come tale, ha bisogno di essere supervisionato dall'intervento umano. Ecco come in Bartners entrano in gioco due nuove figure professionali, uniche nel loro genere, per doti e per caratteristiche lavorative: i Solutions Miner e i Business Miner.
Entrambe hanno a che fare con l’esclusivo sistema informatico messo a disposizione da Bartners. I primi si occupano di ricercare nel mercato le aziende che, per caratteristiche distintive, portano nuove soluzioni all’interno del Sistema, nonché arricchire il database con continue informazioni raccolte dalle aziende (Partners) già attive, consentendo di incrementare una banca dati esclusiva.
I secondi, a loro volta, si occupano della ricerca di soluzioni mirate e di novità da proporre, in un'ottica di abbattimento dei costi, riduzione delle tempistiche, per una fornitura di servizi sempre più accurata e su misura per i nostri Partners.
L’A.I., attraverso la sua personale configurazione, è in grado leggere, confrontare ed elaborare in tempo reale le informazioni contenute nel Big Data, restituendo immediatamente in output indicazioni precise per i Business Miner, che provvedono ad organizzare immediatamente un incontro tra le parti per facilitare la conclusione di un nuovo rapporto commerciale.
Tecnicismi a parte, il valore aggiunto che viene portato direttamente alle aziende, attraverso l’impiego dell’intelligenza artificiale, è un’indiscutibile velocizzazione nell’individualizzazione delle soluzioni necessarie alla conduzione corrente di un’attività e/o nell’attivazione di nuove collaborazioni commerciali, il tutto sostenuto da un’organizzazione proattiva a sostegno delle parti.
Come ultima considerazione, è doveroso sottolineare che, senza l’attuale tecnologia, quello che oggi è possibile fare, era pura fantasia fino a qualche anno fa. L’innovazione informatica ed elettronica, con processori sempre più performanti, sta rivoluzionando il modo di fare impresa e la capacità di rimanere nel mercato: restare allineati allo sviluppo tecnologico è una questione di sopravvivenza e continuità aziendale.
Ci sono manager e leader che ripongono molta fiducia sull'esperienza per prendere decisioni e adottare strategie che ritengono faranno ottenere loro i risultati desiderati. Ma siamo sicuri che sia una buona idea? L'esperienza è davvero un asset così importante?
La maggior parte dei manager si affida molto alla sua esperienza, al punto da considerarla un fattore competitivo chiave sia a livello personale (rispetto ad altri manager), sia a livello aziendale (rispetto ad altre aziende). Credo sia opportuno chiedersi quanto sia saggio dare così tanta fiducia ed enfasi all'esperienza. È davvero così affidabile? E possono i manager più maturi sentirsi veramente sicuri nell'affidarsi alla loro esperienza per prendere decisioni critiche?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire cosa sia veramente ciò che chiamiamo "esperienza" e se, per sua stessa natura, possa considerarsi un vero fattore competitivo oppure una pericolosa trappola. La stragrande maggioranza delle persone crede che l'esperienza sia legata ad eventi passati e/o a come tali eventi siano stati gestiti (con successo o meno). In realtà, ciò che definiamo esperienza è il risultato di convinzioni che abbiamo formato riguardo a ciò che è successo e di come è poi andata a finire. Questo avviene in uno di due modi: per induzione, dove uno assorbe una convinzione che viene volontariamente od involontariamente promossa all'interno di un determinato ambiente; o per deduzione (o inferenza), dove si formula una conclusione basata sulla propria personale interpretazione di certi eventi.
Nel caso dell'esperienza, dobbiamo decisamente togliere l'induzione dall'equazione poiché nessuno può affermare di aver maturato una qualsiasi esperienza da ciò che ha sentito o imparato “là fuori”: l'esperienza è qualcosa che dobbiamo acquisire in prima persona e pensare che: "Ci sono passato ed ho imparato qualcosa di importante a riguardo." Ebbene, cosa hai imparato, esattamente? In che modo hai associato un certo evento con un determinato risultato?... Vedi dove ci sta portando tutto questo?
Ammettiamo che tu abbia assunto un venticinquenne per occupare una posizione strategica nella tua azienda. E' nato - diciamo - in Canada, da una famiglia ebrea, si è laureato in letteratura inglese, ha gli occhi blu ed è allergico ai gatti. Ora, questo ragazzo si è rivelato un disastro e hai dovuto licenziarlo. Così, hai maturato un'esperienza su ciò che è successo ed ora sai che non dovrai più assumere persone che... Che "cosa"? Quali conclusioni hai tratto in proposito? Cosa ne hai dedotto? Che non va bene assumere canadesi? O ebrei? O un laureato in lettere? O persone con gli occhi blu o troppo giovani o allergici ai gatti?
D'accordo, sto semplificando molto, qui, ma se pensi che non abbia mai incontrato persone che formano la loro esperienza su conclusioni totalmente prevenute, basate sulla razza, la religione, l'origine, l'opinione politica o anche la squadra di calcio del cuore, beh, potrei sconvolgerti! Il problema è che 1) formiamo le nostre convinzioni in base a come interpretiamo gli eventi e 2) le nostre convinzioni diventano fatti. Pertanto, la cosiddetta esperienza non è che il risultato di convinzioni che le persone trasformano in fatti nella loro mente.
Può sembrare che si tratti di un processo mentale molto fragile e vulnerabile, ma in realtà il sistema di credo è una dotazione straordinariamente potente. Ci consente di imparare cose di cui non abbiamo fatto diretta esperienza da chi invece l'ha fatta, mettendoci in grado di risolvere in pochi secondi problemi che l'umanità a impiegato secoli per trovare una soluzione. E' pazzesco e, da questo punto di vista, l'esperienza è decisamente un bagaglio che non ha prezzo; ma come ho spiegato, può anche diventar il nostro peggiore tallone di Achille.
Tuttavia, non possiamo permetterci di rinunciare agli enormi benefici che derivano dal costruire una solida esperienza nel corso di diversi anni o decenni. Basta essere consapevoli delle seguenti trappole.
1. Prendere per scontato ciò che sai (o credi di sapere) - Non va mai dimenticato che le convinzioni sono solo supposizioni e, pertanto, una parte notevole del tuo bagaglio di esperienza si basa di fatto su supposizioni, per quanto solide possano sembrare. Può essere un pensiero angosciante, ma al tempo stesso tali supposizioni ti consentono anche di esplorare nuove possibilità ed elaborare strategie autenticamente innovative, specialmente in situazioni di cambiamento. La tua esperienza rimane un forte asset e puoi farne buon uso senza esserne controllato;
2. Considerare l'esperienza un fattore competitivo - Troppi manager usano l'esperienza che hanno maturato nel tempo come leva di potere e per creare competizione con colleghi o subalterni. Tuttavia, l'esperienza ha un qualche reale valore solo finché viene condivisa ed offerta per discussione. Ogni altra cosa è vanità e non solo rivela una scarsa fiducia in se stessi, ma compromette le relazioni.
3. "Diventare" la tua esperienza - Molti non solo usano l'esperienza come leva di potere, ma diventano la loro esperienza. Questo significa che ciò che hanno da contribuire, e la loro stessa essenza professionale, si basa quasi totalmente sull'esperienza che hanno maturato negli anni. Di conseguenza, diventano molto protettivi e gelosi della loro esperienza e la difenderanno ad ogni costo, poco importa a quali crisi e conflitti porterà questo atteggiamento.
4. Smettere di imparare – In questo caso le persone confondono l'esperienza con la conoscenza. In altre parole, credono che l'esperienza possa abbondantemente compensare la mancanza di nuova conoscenza e quindi smettono di imparare. E per rendere le cose ancora peggiori, vedono la nuova conoscenza come fumo negli occhi, nonché una minaccia alla loro esperienza. Fai un respiro profondo e rilassati: la conoscenza e l'esperienza non sono alternative… sono complementari.
Hai lavorato molto duramente per formare la tua esperienza e nel processo ti sarai preso anche qualche bella badilata sui denti, quindi non rinunciarvi. Ricorda soltanto che sei e puoi dare molto di più della tua esperienza.
Quanto controllo hai sul tuo business... Veramente?
Scritto da Alessandro CarliNegli affari, come nella vita in genere, non è possibile realizzare niente senza controllo ed il potere che ne consegue. Eppure, potere e controllo sono tutt'ora tra i concetti meno compresi nella leadership e le conseguenze di ciò sono spesso disastrose.
Qualunque problema si possa avere nella vita o negli affari, alla fine ha a che fare con una carenza di controllo e di potere, che sia a livello materiale (fisico), emozionale o mentale. E il problema nel problema è che è spesso poco chiaro cosa siano davvero controllo e potere, poiché questi due aspetti fondamentali della vita vengono gestiti da un punto di vista meccanicistico che distorce completamente tali concetti.
Tale visione della realtà ci induce a ricercare il controllo e ad implementare il potere attraverso azioni forzose che mirano a far accadere le cose e ad assicurarsi che siano e restino esattamente come le vogliamo. Cercando così di piegare la Natura al nostro volere, creiamo di fatto le crisi e i conflitti che si manifestano con le nostre mani, poiché sono due le cose che non possono essere in alcun modo controllate: i sistemi e le persone (che sono sistemi a loro volta).
E a rendere le cose peggiori, le aziende e le istituzioni umane in genere si affidano alla forza, la determinazione, il coraggio e al carisma di persone che definiamo "leader" per raggiungere risultati e realizzare progetti, ma a meno che essi non pensino e non si muovano da una prospettiva sistemica, il loro successo (che viene visto in relazione alle loro azioni) produrrà effetti collaterali (crisi e conflitti che, al contrario, NON vengono visti in relazione alle loro azioni) che ne mineranno la solidità.
È quindi possibile ottenere risultati più che lusinghieri nel breve-medio periodo, ma gettando al tempo stesso le basi per potenziali disastri sul lungo termine. Sebbene non si possano vedere o percepire, i sistemi sono aspetti molto solidi e concreti di questa realtà che il leader del terzo millennio deve imparare a conoscere, muovendosi poi secondo le leggi che li governano.
Il controllo meccanicistico in un contesto sistemico non può funzionare. Più proviamo ad esercitare controllo e potere, solitamente con l'imposizione o la manipolazione, più essi ci scivoleranno via. Va individuato un nuovo modello di leadership, molto diverso da quello che conosciamo, un modello che si focalizzi sul modo in cui funzionano i sistemi e su come, conoscendo sempre di più la loro natura, possiamo imparare a controllarli. E' come andare a cavallo. Se non ci sai andare, urlare o facendo strani movimenti non sposterà il cavallo di un centimetro. E se cerchi di convincerlo con una frustata, ti scarica a terra in un secondo. Solo riuscendo a capire la vera natura del cavallo ed a cosa risponde potrai finalmente cavalcarlo (o "controllarlo").
Questo ha implicazioni enormi su ciò che definiamo "leadership" oggi e si tratta di una svolta epocale. Ciò che implica è che non solo siamo tutti potenziali leader, ma siamo anche tutti chiamati ad esercitare la nostra leadership: nessuno può tirarsi indietro. Poiché questo nuovo modello non si basa più su tratti caratteriali ben definiti che favoriscono la competitività, andare a conoscere e ad applicare principi sistemici è qualcosa che CHIUNQUE può fare e poiché si tratta di osservare le leggi naturali, non vi è competitività.
Pertanto, imparare di più sui sistemi e su come aderire ad essi significa acquisire un REALE controllo e potere sulle nostre vite o attività, contribuendo così anche al benessere della collettività. Affinché questo possa accadere dobbiamo ricordare che:
1. Non esistono "vuoti" in natura - Sia le scienze naturali che sociali hanno stabilito che nessun "vuoto" è possibile nella nostra realtà. Laddove vi sia un vuoto od una carenza, qualcosa andrà a riempirlo. Nello specifico, se non si ha controllo o potere su un qualsiasi aspetto della vita, qualcosa (o qualcuno) se lo prenderà. Vi è una domanda molto semplice che dovremmo porci: "Se non sono io ad avere controllo, chi ce l'ha su di me?" A meno che non si voglia essere controllati, dobbiamo assumere il controllo: non esiste alternativa.
2. "Tira", non "spingere" - Non accade nulla se non lo si fa secondo Natura. O meglio, le cose accadono lo stesso, ma non nel modo in cui le vorremmo. Forzare la Natura (spingere) imponendo il nostro volere causa risposte indesiderabili. L'alternativa è capire cosa può indurre la Natura a darci ciò che vogliamo (tirare). Qualcuno lo troverà frustrante, ma in realtà nessuno di noi ha alcun potere di realizzare checchessia. Tutto ciò che possiamo fare è "convincere" i sistemi a darci ciò che vogliamo. Questa è probabilmente la consapevolezza più importante rispetto ai sistemi.
3. Smettila di biasimare - Che si tratti di persone o eventi, trattieniti dal biasimare qualcuno o qualcosa per i risultati indesiderabili che stai ottenendo. Quando biasimi stai implicitamente ammettendo di non aver alcun controllo o potere sul tuo ambiente, ma è invece qualcuno o qualcos'altro ad averli. Questa è una posizione estremamente pericolosa perché in questo modo crei dei vuoti che altri saranno in grado (e felici) di riempire, rendendo la tua vita (ed il tuo lavoro) miserabile.
4. Assumi la piena responsabilità per QUALSIASI cosa ti accade, a prescindere di chi sia la colpa. Sii colui che riempie il vuoto ponendoti domande quali: "Cosa avrei potuto fare di diverso?... Cosa mi sta dicendo questa situazione a proposito del controllo e del potere che sto esercitando sul mio ambiente?... Cosa posso fare per evitare che cose del genere accadano nuovamente o che addirittura possa trasformarle in benefici per il mio ambiente...", ecc. Tendiamo ad interpretare le cose in termini di giusto o sbagliato, e cerchiamo sempre chi stia sbagliando o cosa c'è di sbagliato. Dobbiamo andare oltre questo se vogliamo assumere il controllo.
È da prevedere un radicale spostamento di paradigmi, per quanto concerne la leadership. In realtà è già in atto, ma non è stato ancora riconosciuto, men che meno digerito. Questo apre a straordinarie opportunità per ognuno di noi, poiché ci richiede di diventare protagonisti dei tempi che stiamo vivendo. Non sarà un compito facile, ma non potremo eluderlo. Quindi, tanto vale prepararci ad aggiungere una tacca sulla nostra stecca della crescita personale ed imprenditoriale.
Non ce ne pentiremo.
Dinamiche finanziarie in azienda - Qualche considerazione utile_parte 3
Scritto da Dr. Riccardo BordignonNel precedente articolo abbiamo definito quello che può essere la buona regola perché si realizzi un certo equilibrio finanziario in azienda e cioè:
“calibrare Impieghi a breve termine con Fonti di finanziamento a breve termine e Impieghi di medio-lungo termine con Fonti di finanziamento di medio-lungo termine e, contemporaneamente, monitorare i tempi di ri-trasformazione in liquidità degli impieghi stessi perché, altrimenti, potrebbero essere necessari anche dei correttivi proprio in termini finanziari (e mi sento di dire, per esperienza, che i correttivi non sono casi rari).”
Dopo aver evidenziato come può essere impiegato il capitale disponibile in azienda, è il momento di evidenziare quali possano essere le Fonti del capitale, in parole povere da dove possa provenire la liquidità che l’azienda ha a disposizione.
Possiamo distinguere sostanzialmente due principali Fonti di capitale:
- 1) Il CAPITALE PROPRIO;
- 2) Il CAPITALE DI TERZI.
Il Capitale Proprio è costituito dal capitale che normalmente apporta la proprietà dell’azienda ed è un capitale che, in estrema sintesi, assume due forme principali:
- - Il Capitale Sociale: capitale di lungo termine che, al limite, viene immesso in azienda senza dover essere restituito;
- - I Finanziamenti da parte dei soci: forma di capitale che viene immesso in azienda da parte della proprietà per far fronte a necessità temporanee dell’azienda stessa. Proprio perché è la proprietà che decide di sostenere finanziariamente l’azienda, anche se i finanziamenti dovrebbero essere restituiti, questi finanziamenti potrebbero al limite anche essere considerati come una Fonte a medio-lungo termine.
Per la loro natura queste Fonti possono essere utilizzate in azienda per finanziare sia investimenti in immobilizzazioni sia investimenti in capitale circolante in quanto la finalità di tali fonti è proprio quella di “far funzionare” l’azienda.
Che cosa possiamo dire di queste due fonti.
Innanzitutto, semplificando, il capitale sociale iniziale di un’azienda dovrebbe essere costituito da un ammontare di denaro sufficiente a far partire l’azienda e a sostenerne le necessità finanziarie che possono derivare dalla gestione della stessa.
Il capitale sociale iniziale, quindi, dovrebbe servire per investire in attrezzature, macchinari e per far fronte a quei costi di gestione necessari affinchè l’azienda produca i propri prodotti e/o servizi che una volta rivenduti facciano rientrare almeno la liquidità investita nel capitale circolante ed in più producano un certo reddito utile a:
- - ripagare una parte delle attrezzature/macchinari (che hanno un tempo di utilizzo più lungo) e
- - remunerare l’attività svolta in modo, poi, da creare possibilmente un certo livello di autofinanziamento della società.
Ovviamente abbiamo semplificato di molto i concetti ma ci preme soprattutto evidenziare che anche in fase iniziale (adesso va di moda dire in fase di start up), quantificare le necessità finanziarie è assai importante perché altrimenti si rischia di partire già zoppi. Che succederebbe, infatti, se il capitale immesso inizialmente non fosse sufficiente a far fronte a tutte le necessità finanziarie?
Ecco perché prima di partire è fondamentale redigere un business plan ben ragionato. Il suo obiettivo principale è proprio quello di evidenziare le necessità finanziarie del business in modo da evitare spiacevoli sorprese in corso d’opera.
L’altra forma di capitale proprio è rappresentata dai Finanziamenti soci che, come abbiamo già detto, possono rappresentare delle iniezioni di liquidità necessarie per far fronte a emergenze più o meno temporanee dell’impresa oppure possono essere anche utilizzate per dar corso a dei progetti aziendali.
L’altra Fonte di capitale, altrettanto importante, è costituita dal Capitale di Terzi che può rivestire la forma di:
- - Capitale bancario di medio-lungo termine;
- - Capitale Bancario di breve termine;
- - Finanziamenti/leasing vari da istituti finanziari;
- - Credito concesso dai fornitori;
- - Altre forme di credito concesso all’azienda.
L’ammontare di tutte queste voci rappresentano, di fatto, liquidità che l’azienda ha ottenuto da fonti diverse dai propri soci e, quindi, sono indice anche della credibilità che l’impresa ha avuto nell’ottenerli.
Chi concede credito all’impresa, ovviamente, lo fa a certe condizioni, normalmente rappresentate da:
- - Ammontare del credito;
- - Oneri finanziari sul credito concesso;
- - Durata stabilita per la restituzione dell’importo;
- - Oneri e clausole di salvaguardia accessori alla concessione del credito.
Anche il ricorso al capitale di terzi è assai importante per l’impresa perché capita che l’impresa, nel suo sviluppo, abbia la necessità di ottenere della liquidità che i soci magari non hanno a disposizione, oppure perché l’impresa ritiene che, grazie ad un’ulteriore immissione di capitale, sarà in grado di sviluppare ulteriore business capace non solo di restituire il capitale ottenuto a prestito e di pagare gli oneri relativi, ma di ottenere anche un extra utile per l’azienda stessa;
Si capisce bene, anche se abbiamo voluto semplificare al massimo certi concetti, come anche in questo caso le dinamiche aziendali che riguardano l’utilizzo, variabile nel tempo, di capitale proprio e capitale di terzi possano diventare molto complesse e tendano a sfuggire di mano, soprattutto al crescere delle dimensioni aziendali e al crescere, quindi, del numero e del volume delle transazioni che si mettono in pista.
Anche qui il nostro consiglio è quello di fare, quanto più possibile, tutti i ragionamenti necessari per mantenere i giusti equilibri nel tempo.
Ragionare in termini economici di marginalità di business e capacità di restituzione/remunerazione delle varie forme di capitale utilizzate è assolutamente essenziale, come è essenziale riuscire ad analizzare e programmare al meglio le necessità finanziarie dell’azienda. Solo ragionando ad ampio spettro e con cognizione di causa, infatti, si riuscirà a muoversi per tempo e a fare le mosse giuste.
L’alternativa sarà quella di rincorrere continuamente l’emergenza senza capire da dove questa arrivi e, soprattutto, farvi fronte con strumenti poco idonei se non quando errati e controproducenti.
Ottimisti contro pessimisti; pensiero positivo contro pensiero negativo; bicchiere mezzo pieno contro bicchiere mezzo vuoto, ecc. L'eterna epica battaglia tra due modi di vedere la realtà, ma in effetti si tratta solo di due parti impegnate a fare lo stesso gioco.
Il pensiero positivo è sempre stato associato ad una leadership efficace. Non a torto. È difficile guidare le persone se tutto ciò che riesci a vedere sono problemi, ostacoli, crisi e la legge di Murphy che imperversa. Questi pensatori negativi non riescono a gestire le loro vite, figuriamoci quelle di altri. Eppure i pensatori positivi e negativi hanno più in comune di quanto crediamo.
Intanto, vedono entrambi la realtà dalla stessa angolatura. Si dice che i pensatori positivi vedano il bicchiere mezzo pieno e che i pensatori negativi lo vedano mezzo vuoto. Certo, ma entrambi vedono il bicchiere da una certa distanza: sono entrambi "qui", mentre il bicchiere è "là". Ci rapportiamo con il mondo allo stesso modo. Che si sia ottimisti o pessimisti, vediamo il mondo come qualcosa di "altro" o di distaccato da noi, sebbene in modi diversi.
Può sembrare alquanto filosofico, ma le sue implicazioni pratiche sono piuttosto serie. Ammettiamo che si presenti un problema, tipo che vieni licenziato. Il pensatore negativo comincia a dare i numeri, giusto? Sarà preoccupato per come riuscirà a sbarcare il lunario senza lo stipendio e fosche immagini occuperanno la sua mente. Tuttavia, non ci aspetteremmo questa reazione da un leader, ti pare? Poiché un vero leader è un pensatore positivo che guarda sempre al lato rosa di qualsiasi situazione. In questo caso, riuscirebbe ad intravvedere nuove e migliori opportunità per se stesso e la sua famiglia. Che fico, non trovi?... O no?
La sola cosa che cambia qui è la reazione, non la prospettiva. Ci sono certamente risposte comportamentali anche molto diverse ad un evento indesiderato, ma il rapporto con il problema stesso non cambia. In entrambi i casi, le persone cercano di assumere un certo controllo emozionale su un evento inaspettato, sebbene uno associandosi al problema e preoccupandosi al fine di impegnarsi emotivamente nella ricerca di una soluzione; e l'altro dissociandosi dal problema per riuscire ad individuare delle alternative più efficaci. Non c'è dubbio che questa seconda soluzione sia più funzionale, ma entrambi mancano il bersaglio, qui, poiché nessuno dei due diventa il problema, cioè non si riesce a vedere la situazione dal punto di vista del... problema.
Mi rendo conto che suoni davvero strano, ma diresti che il problema vedrebbe se stesso come un... problema? O non si vedrebbe piuttosto come ciò che si rende necessario per indurre entrambe le parti a crescere, che è poi il motivo per cui ci troviamo tutti su questo pianeta? Il pensatore negativo ha certamente bisogno di un bel calcio nel sedere per scuotersi fuori dalla sua area di comfort emozionale e mentale... e il pensatore positivo? Vediamo: è forse davvero proattivo nel modo in cui gestisce la situazione? O sta soltanto reagendo a sua volta? Reattività e proattività sono concetti antitetici. Se il pensatore positivo è veramente proattivo, perché ha avuto bisogno di venire licenziato prima di decidere di esplorare nuove opportunità?
Il pensiero positivo è stato decisamente sopravvalutato finora. Il vero pensiero positivo non riguarda il vedere il lato positivo delle cose, ma l'immergersi negli eventi e guardando noi stessi mentre cerchiamo di dirci qualcosa.
Questo richiede fede nel fatto che la vita, o la realtà circostante, lavora sempre per noi e che ci vuole aiutare ad ottenere un reale controllo diventando sempre più proattivi. Interpretiamo la "positività" in modo moralistico, vedendola come un sinonimo di "buono". In realtà, in natura, (nell'elettromagnetismo), "positivo" è solo un attributo che si dà al polo da cui parte il flusso di elettroni, mentre il polo negativo "attende" di ricevere tale flusso. Ne consegue che la positività ha a che fare con l'essere la causa, e quindi essere in controllo, che è ciò che il pensiero positivo dovrebbe aiutarci ad ottenere.
Credo che la nuova versione di pensiero positivo di cui sto parlando (Pensiero positivo 2.0) sia uno degli aspetti più importanti che un leader deve assimilare nel mondo di oggi. Infatti, molti leader efficaci lo stanno già usando e forse senza nemmeno esserne consapevoli. Di certo, si richiede di adottare un nuovo modello mentale e qualche linea guida da seguire.
1. Diventa il problema - Ne ho già parlato, quindi non voglio indugiare oltre. In sostanza, significa non cercare di andare controvento (contro il flusso), bensì di capire perché è sorto, quel problema, e cosa sta cercando di dirci.
2. Non cercare di influire sulla realtà, ma lascia che realtà influisca su di te - Le nostre reazioni emotive ci inducono sempre a cambiare qualcosa della nostra realtà, in un modo o nell'altro. Questo non è essere proattivi, men che meno positivi. Paradossalmente, è imparando (atteggiamento di ricezione, che è "negativo") dalla realtà che diventiamo sempre più proattivi (atteggiamento di dare, "positivo"), così come un buon seguace riesce a crescere imparando da un buon leader.
3. Sforzati di diventare un "contributore" - Contribuire è un altro modo di dire "dare". Contribuendo diventi automaticamente proattivo perché non devi aspettare che accada qualcosa per dare (mentre per ricevere devi aspettare). Ci sono decine di modi per contribuire. Puoi contribuire materialmente (offrendo denaro, opportunità, ecc.), emozionalmente (offrendo apprezzamento, gratificazione, rispetto, fiducia, ecc.), mentalmente (offrendo suggerimenti pratici, conoscenza, coaching, ecc.) o spiritualmente (instillando una cultura del contributo).
Non è così difficile fare un "upgrade" a questa nuova versione di "pensiero positivo", ma richiede certamente un notevole spostamento di paradigmi. Va bene. Finché sai in quale direzione devi andare, il viaggio è entusiasmante quanto la destinazione.
Ammesso che tu sappia quale sia la destinazione… ma questo è un altro discorso.
Sentiamo sempre più spesso dire: “…le Banche non concedono più credito” o “…è sempre più difficile ottenere credito dalle Banche”.
A tali affermazioni rispondiamo con qualche domanda, seguita da alcune considerazioni.
Innanzitutto, poiché l’interlocutore è quasi sempre un imprenditore, gli chiediamo se sarebbe disponibile a concedere una fornitura di merce o di un servizio ad un’azienda che gode di poca credibilità o per nulla attendibile; se sarebbe disposto a dilazionare il pagamento, anche se l’azienda fosse poco affidabile.
Ecco, la risposta che riceviamo è quasi sempre “NO!”.
Con questa semplice riflessione spieghiamo perché molto spesso il “NO” ricevuto da una banca è probabilmente, anzi sicuramente, frutto di tre gravi mancanze: una discutibile reputazione (rating finanziario) del richiedente, una “forma” inadeguata con la quale si effettua la richiesta ed una mancanza di pianificazione in grado di garantire una sufficiente capacità restitutoria del credito richiesto.
Analizziamo quanto detto e cerchiamo di capire come si svolgono le dinamiche della richiesta di credito.
Innanzitutto, vediamo di dare una prima definizione di rating: è un giudizio che viene espresso da un soggetto esterno all’azienda, sulle capacità di questa di pagare o meno i debiti. Le valutazioni comprendono vari aspetti, per esempio, al fine di comprendere la capacità che la società ha di fronteggiare il pagamento dei propri impegni finanziari, si valutano: i flussi di cassa, la redditività, il posizionamento sul mercato, l’indebitamento finanziario netto, ma anche aspetti qualitativi, quali l’affidabilità del management. Non mancano, inoltre, considerazioni di natura esterna alla singola società, come il contesto macroeconomico, perché è evidente che una cosa è operare in un’economia in forte espansione e un’altra è farlo in piena recessione.
Il rating bancario, cioè l’indice di solvibilità e affidabilità derivante dall’analisi sul comportamento e sull’uso degli strumenti finanziari, nonché la valutazione degli asset economico/finanziari dell’azienda, determina il merito creditizio, cioè quanto l’azienda è affidabile e quanto l’azienda è strutturata per garantire il rimborso del finanziamento. Per correttezza dobbiamo sottolineare che i rating di valutazione sono almeno due: il rating interno della Banca e il rating della Centrale Rischi prodotto da Banca d’Italia.
Cercando di semplificare la spiegazione delle dinamiche di costruzione e funzionamento, il rating interno alla banca è definito principalmente dai volumi d’indebitamento e, soprattutto, dal comportamento sull’utilizzo degli strumenti finanziari concessi all’azienda dalla banca stessa. Il rating della Banca d’Italia viene elaborato e definito con dati aggregati, forniti ogni fine mese da tutti gli istituti di credito operanti con l’azienda. In altre parole, la Banca d’Italia raccoglie i dati di ogni singola posizione bancaria e li sviluppa in una forma aggregata, cioè raggruppando per strumenti omogenei, il comportamento dell’azienda.
Del resto è anche lecito chiedersi, quanti imprenditori conoscono il proprio rating Bancario? Quanti conoscono le dinamiche per migliorare il proprio merito creditizio?
Parliamo ora della forma di comunicazione che spesso avviene tra l’azienda e l’Istituto Bancario. Siamo alla presenza di due realtà che parlano due linguaggi completamente diversi, sia per cultura che per concezione temporale. L’azienda richiede finanza o per esigenze di liquidità (presente) o per finanziare un’attività, per un progetto di miglioramento nei processi produttivi/commerciali o per lo sviluppo del proprio business (futuro). La Banca valuta la concessione di credito sulle “credenziali” dell’azienda, ovvero sulla base dell’analisi dei dati storici (passato).
I bilanci, in particolare, dovrebbero essere espressione del valore delle aziende e, sulla base di tale valore, le Banche dovrebbero essere in grado di valutare (rating) quanta fiducia concedere loro in termini di credito. Il condizionale è d’obbligo in quanto, ciò che prima aveva un valore sulla base del quale concedere del credito (i, così detti, Beni Materiali: il capannone, il magazzino, i macchinari ecc.), oggi, in realtà, non sembra più essere indicatore di quanto un’impresa sia affidabile e ci si è accorti di quanto tale sistema di valorizzazione e di valutazione sia risultato fragile e fuorviante. Ne deriva che gli elementi storici non solo non sono così determinanti per la valutazione e concessione di credito, ma sono addirittura insufficienti.
Oggi assumono un’importanza fondamentale in questo senso i Beni Immateriali come ad esempio:
- - I marchi, i brevetti, la qualità dei reparti R&D e Progettazione;
- - Il capitale Intellettuale dell’azienda, composto dalla qualità delle persone interne all’organizzazione e dei professionisti esterni di supporto all’impresa;
- - La Vision, la Mission ed il Modello di Business dell’impresa;
- - La concezione del prodotto;
- - Le strategie di Marketing, l’efficacia della comunicazione e l’individuazione corretta dei target di clienti;
- - La rete commerciale, l’accesso ai mercati e la capacità di recepire le loro esigenze;
- - I servizi al cliente;
- - La finanza e la gestione dei flussi di cassa.
Sono questi tipi di Investimenti e di accorgimenti che danno un valore alla struttura in Beni Materiali (il capannone, il magazzino, i macchinari, ecc.), in quanto permettono a quest’ultimi di lavorare nel futuro e di creare reddito. È la capacità dell’azienda di produrre reddito che diventa il principale focus e la vera garanzia per la banca di concedere credito in “sicurezza”.
Comunicare tutto questo ad un sistema bancario, ancora oggi legato a processi di valutazione e di affidamento basati esclusivamente sui dati storici, e riuscire, invece, a trasferire le potenzialità di generare ulteriori profitti dall’iniziativa oggetto per la quale si richiede un finanziamento, non è per nulla semplice.
Anche la Banca si deve aggiornare ed evolvere nei propri parametri e strumenti di valutazione. Non basta più un’analisi di tipo quantitativo sul passato o sul presente dell’azienda; le semplificazioni numeriche (i bilanci e le relative analisi) non sono in grado di evidenziare appieno i rischi dell’azienda e, soprattutto, non forniscono informazioni su un possibile futuro delle imprese. Dunque, i rischi latenti per gli Istituti di Credito aumentano in modo proporzionale all’aumento della complessità della realtà e lo dimostrano i crescenti dati relativi alle posizioni di sofferenza e, soprattutto, la velocità di degenerazione delle posizioni delle imprese clienti. Da qui la difficoltà a misurare l’effettivo grado di rischio per ogni impiego e, soprattutto, la mancanza di strumenti d’ allerta e controllo sull’evoluzione delle attività per le quali è stato erogato il credito.
Serve una “nuova figura” che affianchi l’Istituto di Credito (rappresentato dal gestore), da un lato per completare l’analisi quantitativa delle aziende clienti con un’analisi che non può essere altro che di tipo qualitativo, e dall’altro che fornisca anche un servizio di monitoraggio/guida, rispettivamente utili sia per l’istituto che per l’azienda.
In questo modo si raggiunge per l’Ente erogante un duplice risultato: avere un quadro maggiormente dettagliato sul modello di business rappresentato dall’azienda richiedente ed una costante relazione sull’evoluzione del progetto finanziato, rispetto anche alla possibilità prospettica d’ insorgenza di criticità.
A seguito delle precedenti considerazioni, possiamo indicare come unica soluzione utile ad uscire da questo cul-de-sac, una evoluzione del rapporto Banca/Azienda attraverso l’intervento di un soggetto terzo in grado di elevare la sicurezza della prima e l’affidabilità della seconda.
In altre parole, se non si attivano tutte quelle azioni che consentono di migliorare il RATING FINANZIARIO dell’azienda e non si formula la richiesta attraverso una comunicazione proattiva del PIANO STRATEGICO DELL'IMPRESA (che ne garantisca la continuità attraverso uno specifico e attento PIANO ECONOMICO- FINANZIARIO, il Business Plan, da parte dell’azienda), e la banca non rivede il modello di valutazione – analisi, monitoraggio e controllo – l’incontro tra domanda e offerta di credito sarà sempre più difficile e la risposta sarà, inesorabilmente, un “NO!”.
In ambito finanziario il Sistema Bartners ha, fra le altre cose, anche queste finalità: migliorare la comunicazione della strategia economico-finanziaria dell’Impresa in senso qualitativo, oltre che quantitativo e in maniera prospettica, seguendo l’evoluzione dell’attività oggetto di finanziamento, ponendo in essere un monitoraggio costante, al fine di mantenere aggiornato il flusso d’informazioni con l’Istituto di Credito e assicurare la sostenibilità del finanziamento, anche qualora l’evoluzione dello stesso incontrasse momenti di difficoltà e/o criticità da risolvere. Infatti, essendo una prerogativa del Sistema Bartners quella di trovare tempestivamente soluzioni mirate alle necessità che di volta in volta possono insorgere, ogni progetto può essere sostenuto e accompagnato nella sua realizzazione grazie ad innovativi protocolli operativi.
Si tratta, dunque, di una garanzia per entrambe le parti: la banca può finanziare l’azienda ponendo in essere nuovi strumenti di analisi, di valutazione e di controllo; l’azienda può essere finanziata con la sicurezza di raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati con il supporto di un Partner operativo.
Ecco perché molto spesso la risposta finanziaria che riceviamo a fronte di un progetto sostenuto da Bartners è: “SI!”.
Altro...
Dinamiche finanziarie in azienda – Qualche considerazione utile_parte 2
Scritto da Dr. Riccardo BordignonNel precedente articolo abbiamo visto come alcune poste del Capitale Circolante abbiano un impatto sulle dinamiche finanziarie in azienda.
Un altro elemento a cui bisogna prestare attenzione è la coerenza, o meglio l’equilibrio, tra Fonti e Impieghi di capitale.
Gli impieghi di capitale non sono altro che i modi in cui decidiamo di investire la liquidità che abbiamo a disposizione.
Il primo modo di utilizzare la liquidità a disposizione è costituito dal pagamento di tutti quei beni e/o servizi di cui l’azienda ha bisogno perché gli stessi contribuiscono ad ottenere i prodotti/servizi che l’azienda stessa vuole vendere sul mercato.
Si tratta del pagamento di tutti quei costi che compongono tipicamente il Conto Economico dell’impresa (acquisti di materie prime/semilavorati, acquisti di servizi di terzi, pagamenti di salari e stipendi del personale assunto e dei relativi contributi etc ….) e si tratta, quindi, di impieghi di capitale che sono necessari in quanto fanno parte essi stessi dell’attività dell’azienda e che, in linea teorica, dovrebbero essere strettamente funzionali al compimento del ciclo produttivo aziendale e, di conseguenza, ritornare sotto forma finanziaria nel giro di un breve tempo con “attaccato” anche l’utile aziendale.
Sappiamo, però, che la realtà è ben diversa e spesso il ciclo di ri-trasformazione in forma monetaria delle uscite finanziarie a volte si allunga di molto, a volte addirittura si interrompe.
Ecco, quindi, che una parte di questi impieghi si possono ritrovare in azienda sotto forma appunto di Capitale Circolante, cioè in qualche modo “congelati” più o meno temporaneamente sotto forma di Magazzino (materie prime, semi-lavorati o prodotti finiti), Crediti Commerciali oppure anche sotto forma di una certa Liquidità a disposizione utile per far fronte a spese improvvise o impreviste.
Un altro modo, poi, per impiegare il capitale a disposizione può essere individuato negli investimenti in Immobilizzazioni Materiali (ad esempio attrezzature e macchinari, automezzi, immobili produttivi, etc …) Immateriali (ad esempio investimenti in software, in attività di marketing etc…) o Finanziarie (ad esempio acquisti in partecipazioni di altre società).
Ciò che differenzia gli investimenti in Capitale Circolante ed in Immobilizzazioni è sostanzialmente il tempo in cui il capitale investito dovrebbe ritornare nuovamente sotto forma di liquidità e con essa anche il rendimento associato all’investimento stesso.
Gli investimenti in capitale circolante generalmente dovrebbero avere un tempo di ri-trasformazione in liquidità nell’arco di 6-12-18 mesi (vendo i prodotti immagazzinati, i crediti si trasformano in incassi dai clienti etc ..) mentre il capitale investito in immobilizzazioni ha, di norma, tempi molto lunghi di ri-trasformazione in liquidità per l’azienda.
Si pensi ad un immobile che l’azienda acquista ai fini dello svolgimento dell’attività. Questo si ritrasformerà in liquidità probabilmente dopo tantissimi anni e, nella peggiore delle ipotesi, il business generato potrebbe non portare marginalità sufficienti, nel corso degli anni, non solo a generare un’accettabile redditività dell’investimento ma addirittura a pagare l’immobile stesso.
Oppure si pensi all’acquisto di un macchinario ai fini produttivi. Questo dovrebbe trasformarsi nuovamente in liquidità attraverso il ciclo di produzione – vendita dei prodotti che è in grado di generare. Ma siccome un macchinario si ammortizza con il suo uso negli anni (attraverso la produzione generata), anche qui saremo di fronte ad una ri-trasformazione completa molto lunga.
Ma perché è importante valutare attentamente i tempi di ritorno degli investimenti in liquidità?
Perché questi debbono essere sostenuti da Fonti di Capitale che devono essere altrettanto ben calibrate.
Se ci troviamo, infatti:
(A) a finanziare degli investimenti in immobilizzazioni con capitale che dovrà essere restituito in un arco temporale più breve rispetto ai tempi di ri-trasformazione in liquidità degli investimenti stessi, l’azienda si troverà in crisi di liquidità (a meno che tale sfasamento non sia coperto dalla capacità di autofinanziamento che l’azienda sia in grado di generare nel breve termine).
(B) Qualora, invece, ci trovassimo a finanziare investimenti in capitale circolante con fonti non a breve termine non ottimizzeremmo la finanza aziendale in quanto ci troveremmo ad avere delle disponibilità liquide in azienda (per la più breve ri-trasformazione in liquidità del capitale circolante) a fronte di finanziamenti che, per quanto a buon mercato, spesso comportano una certa onerosità, sia in termini di garanzie che in termini di costi, quest’ultimi a discapito dei profitti dell’azienda.
E’ ben vero che il caso (A) è ben più grave e critico del caso (B) ma la piena consapevolezza di questi concetti in azienda deve soprattutto portare a fare scelte ragionate e non “a naso” come spesso succede.
La buona regola, perciò, è quella di calibrare Impieghi a breve termine con Fonti di finanziamento a breve termine e Impieghi di medio-lungo termine con Fonti di finanziamento di medio-lungo termine e, contemporaneamente, monitorare i tempi di ri-trasformazione in liquidità degli impieghi stessi perché, altrimenti, potrebbero essere necessari anche dei correttivi proprio in termini finanziari (e mi sento di dire, per esperienza, che i correttivi non sono casi rari).
Nel prossimo articolo, per chiudere un po’ il cerchio del discorso, prenderemo in considerazione anche le Fonti di Capitale.
I tre grandi eventi che hanno cambiato il mondo per sempre... Anche quello del business
Scritto da Alessandro CarliUna volta ci volevano guerre e pestilenze per imprimere profondi cambiamenti nel modo di pensare e di vivere delle persone. Oggi non è più così, per fortuna (anche se, nel suo piccolo, il Covid19 ci sta mettendo del suo), e forse per la prima volta nella storia, i cambiamenti epocali sono il risultato di qualcosa di nuovo e di positivo che sta prepotentemente crescendo dentro di noi.
La nostra capacità di adattamento come esseri umani è straordinaria ed è ciò che ci ha consentito di arrivare fin qui. Solo che, da qualche anno, le cose stanno cambiando radicalmente e non siamo più noi a doverci adattare all’ambiente o alle circostanze, ma abbiamo raggiunto la capacità di piegare questi ultimi ai nostri bisogni e, purtroppo, anche ai nostri capricci. Di cosiddette “svolte epocali” l’umanità ne ha viste e vissute tante, ma oggi questi termini non sono più sufficienti per descrivere ciò che sta accadendo proprio durante la nostra esistenza, nel preciso momento in cui mi stai leggendo.
Possiamo dividere la nostra storia non più in epoche, ma in ere. La prima era è quella che, dall’inizio dei tempi, è finita solo pochi decenni fa, al termine del secolo scorso. Durante tutto questo tempo, l’umanità è stata sottomessa alle angherie del nostro ambiente e degli accadimenti, non lasciandoci altra scelta che farcene una ragione. Possiamo definire questo lunghissimo periodo come di Dipendenza.
A partire dalla fine degli anni ’80, però, le cose hanno cominciato a cambiare ed è iniziata la seconda era. Non è possibile stabilire quando, esattamente, è iniziato questo processo, ma lo si può situare intorno al 17° - 18° secolo quando, per la prima volta, abbiamo iniziato a metterci in contatto con il nostro straordinario potenziale. Con l’avvento della scienza come la conosciamo, poi, abbiamo capito che possiamo piegare la Realtà al nostro volere. Proprio solo 30-40 anni fa, questa consapevolezza ha raggiunto il suo massimo, grazie ad una crescita tecnologica al limite del parossismo, ed abbiamo arbitrariamente assunto il primato su ogni cosa. Questo è il periodo dell’Indipendenza.
Prima di passare alla terza era, che è alle porte, è bene capire quali siano i tre eventi che hanno segnato per sempre il periodo che stiamo vivendo ora.
Il primo grande evento è la Globalizzazione. È impossibile stabilire quando questo processo sia effettivamente iniziato, ma se ne sono visti gli effetti già a partire dall’ultimo dopoguerra ed è diventato lampante dopo la caduta dell’Impero Sovietico. La straordinaria crescita economica di mercati considerati fino a quel momento in via di sviluppo, come la Cina, l’India, la Russia e il Brasile (il cosiddetto BRIC) l’ha definitivamente sancito. In pratica, il mondo è diventato un solo ed unico mercato globale che ha consentito a chiunque di interagire con chiunque altro nel pianeta.
Questo ha aperto inimmaginabili opportunità di business per chiunque, anche i più piccoli, o addirittura i singoli, ed il mondo intero ha assistito ad una crescita mai vista di benessere e ricchezza… anche se concentrati su pochi paesi privilegiati. Tutto questo, però, sarebbe stato impossibile senza il supporto di una tecnologia che consentisse di tenere in comunicazione le persone e tale tecnologia è ciò che ha segnato il secondo grande evento: Internet. Usata inizialmente a fini militari, la “rete” ha consentito alla Globalizzazione di consolidarsi e di ridurre il pianeta a poco più di un villaggio. La comunicazione e soprattutto la connessione che si è venuta a creare tra persone e popoli ha rafforzato e velocizzato la nostra capacità di entrare in una relazione personale e/o professionale con chiunque altro nel mondo.
Questo processo, ancora in corso, è tutt’altro che distaccato ed asettico, poiché ha fatto anche nascere e sviluppare una nuova consapevolezza globale, che è quella di essere tutti legati, in qualche modo. Da un punto di vista sistemico, il risvolto di questa consapevolezza a livello della nostra qualità come esseri umani è inimmaginabile: non riusciamo più a vederci come isole felici (nei paesi più privilegiati, almeno), ma sempre più come facenti parte di una stessa umanità diretta verso un comune destino. L’asetticità del mezzo Internet avrebbe probabilmente potuto portarci solo fino a un certo punto, ma con il terzo grande evento, la coesione tra persone e popoli si è letteralmente cementata.
Possiamo definire questo evento come Logistica, cioè la possibilità di spostare persone e merci ovunque nel mondo a costi sempre più accessibili. Le persone non si vedevano più soltanto attraverso uno schermo, ma paradossalmente, proprio grazie a Internet, cresceva il desiderio di avere una relazione più “intima” e vicina con altri individui, paesi e culture. Il Covid ha un po’ raffreddato questa situazione e abbiamo imparato ad interagire per lavoro anche a distanza (peraltro risparmiando tantissimo sulle trasferte), ma questo non ha affatto spento la voglia di approfondire i rapporti con altre persone in modo più aperto e sincero, anzi.
Questa è la situazione oggi e ci troviamo davanti a un bivio. Prendendo una prima via, decidiamo di adagiarci nello stato di cose che si è venuto a creare a causa del Covid restando, ognuno di noi, separato dal resto del mondo in una piccola stanza semibuia, cercando di ripristinare uno stato di business as usual in cui possono riemergere i peggiori istinti egoistici. In questo caso, restiamo saldamente nella seconda era dell’Indipendenza. Della serie: ognuno per sé e Dio (chi?!) per tutti!
Scegliendo invece l’altra via, continuiamo decisi sul percorso che ci è stato aperto, ricercando un nuovo modo di fare business (e non solo), sempre più consapevoli della straordinaria interconnessione che esiste – e che, in realtà, è sempre esistita – tra popoli e individui. Non è utopia: sta già accadendo. Le aziende stanno continuamente cercando strategie sempre più etiche per rapportarsi col mercato, lavorando contemporaneamente su due fronti: un interesse più o meno sincero per i bisogni delle persone ed una maggiore attenzione per il nostro pianeta.
Poco importa se l’interesse per i bisogni altrui sia in realtà comunque mosso dal solito strisciante egoismo o se dietro l’improvvisa e spesso stucchevole premura per la salute della Terra ci siano enormi interessi. Conta invece che è in atto un’evidente svolta a livello di coscienza globale, dove sempre di più l’umanità capisce che i destini dei singoli sono legati al destino comune.
Questa è la terza era, quella dell’Interdipendenza, quella in cui si verrà a creare un forte – anzi, indissolubile – legame fra tutti noi, un legame così autentico e profondo che ogni cosa che faremo a detrimento di altri verrà universalmente stigmatizzata e si rivolgerà immediatamente contro di noi. L’egoismo cesserà d’essere un comportamento profittevole, anzi, ed il business non potrà fare a meno di prendere atto di questa nuova realtà che, ribadisco, è già in essere.
L’impresa di successo sarà sempre di più quella che assicurerà il successo altrui.
Quando un’attività lavorativa rimane ancorata a vecchi schemi e paradigmi, di fatto la stiamo “imprigionando”, impedendole così di esprimere il suo potenziale.
I tempi sono cambiati e le vecchie formule stanno mostrando tutta la loro inefficacia. Occorre nuova linfa, nuove idee, nuove misure.
Michelangelo passava intere settimane tra le cave di marmo a Carrara per scegliere il blocco perfetto per la sua prossima creazione e non si fermava finché non trovava quello in cui, all’interno, vedeva mentalmente la forma che sarebbe dovuta emergere. Infatti, sosteneva che scolpire non era un atto di creazione, ma di liberazione; in altre parole, la statua che già esiste all’interno del blocco di marmo doveva “semplicemente” essere liberata da tutta la materia superflua che la imprigionava.
Un’azienda (o attività lavorativa) non è diversa. Essa ha già in sé tutto il potenziale per esprimere il proprio valore e la propria capacità di generare benessere non solo per se stessa, ma per tutti coloro che ne entrano in contatto in qualche modo (i cosiddetti stakeholder). Un’azienda – ogni azienda! (o qualsiasi altra istituzione umana, se è per quello) - è già perfetta così com’è, esattamente come il blocco di marmo dal quale Michelangelo avrebbe estratto la forma che aveva impressa nella sua testa fin nei minimi particolari e il lavoro di un imprenditore non sta nell’aggiungere o modificare qualcosa… ma nel togliere.
Ma togliere cosa?
La rigidità, l’ossessione per il controllo, la pigrizia mentale, il vittimismo, la cultura della scarsità, il dubbio, la mancanza di chiarezza (su obiettivi, strategie, valori, scopi, ecc.) e decine di altre cose che potremmo raccogliere nella definizione, molto semplicistica, di negatività. Quando parlo con un imprenditore delle problematiche che sta affrontando con la sua attività, solitamente si sofferma su tutto ciò che non va, che non ha o che non è come (secondo lui) dovrebbe essere. Quando poi gli chiedo di cosa va particolarmente orgoglioso, quasi sempre si sofferma sugli aspetti operativi della sua azienda: la qualità, la competenza, la gestione delle risorse materiali, le attrezzature, l’organizzazione…
Ecco il problema. Gli aspetti tecnici, meramente operativi, di un’azienda sono solo strumenti che l’imprenditore ha a disposizione per esprimere nei fatti il potenziale della sua attività, così come martello e scalpello erano gli strumenti che Michelangelo aveva per liberare la sua forma dal blocco di marmo. Puntare tutto su quelli sarebbe come se un critico d’arte, guardando i capolavori del Maestro, concludesse che egli è stato grande solo grazie ai favolosi attrezzi che usava!
In realtà, se dietro una forte struttura aziendale (aspetto tecnico-operativo) ribolle nel sottofondo quella negatività a cui mi riferivo, che in sostanza significa non essere focalizzati sulla perfezione “genetica” della propria azienda, ma sulle sue carenze creative, non solo quegli strumenti non riusciranno a liberare il suo potenziale, ma andranno ad aggiungere ulteriore zavorra, intrappolandola sempre di più.
Certo che occorre fare i conti con la realtà e vedere ciò che non funziona, ma non da una prospettiva di carenza, bensì di consapevolezza del valore intrinseco ed unico dell’azienda. Allora sì, che la struttura aziendale (lo strumento) contribuisce a liberare l’impresa da tutto ciò che la sta tenendo a terra. Se si parte dal presupposto che un’impresa sia già intrinsecamente perfetta, la domanda che sorge spontanea è: ma che aspetto avrebbe un’azienda che riesce ad esprimere il suo pieno potenziale? È un’azienda in grado di funzionare in piena autonomia, esattamente come un’auto porta il passeggero dove desidera senza alcun intervento da parte sua.
Questo è semplice da capire parlando di un auto, ma riferito ad un’azienda rischia di assumere connotati semplicistici o teorici, nella migliore delle ipotesi. Eppure, è questo l’inevitabile destino delle aziende in un futuro che è già qui, ma che si deve rivelare gradualmente. Intanto, va detto che la chiave di questa evoluzione è del tutto culturale. Questo passaggio non prevede né grandi investimenti economici né particolari sconvolgimenti strutturali od organizzativi. La vera sfida sta unicamente nel cambiare la visione che normalmente si ha dell’azienda e nelle resistenze interiori che questo inevitabilmente comporta.
Il vecchio modello meccanicistico e gerarchico dell’azienda non funziona più e se non fosse per le resistenze culturali a cui accennavo, l’avremmo già tutti abbandonato da un pezzo. Il nuovo modello è quello di un’organizzazione (non solo un’impresa produttiva, quindi) non più diretta da regole, procedure e gerarchie, ma che segue un imprinting genetico che le consente di funzionare come un organismo, quale di fatto è. Potremmo definirla un’organizzazione a guida autonoma, ispirata all’unico modello di successo perpetuo, qual è la Natura.
Ecco 7 vie per predisporre questo nuovo modello aziendale.
1. Sviluppare una visione sistemica dell’azienda
Questo punto meriterebbe ben altro spazio, ma in sostanza si tratta di maturare la consapevolezza che la realtà si sviluppa su più livelli e che non è sufficiente intervenire unicamente su uno, quello strutturale (operativo), come avviene solitamente. Va inoltre compreso come questi livelli interagiscano fra loro, andando a rafforzarsi, ovvero indebolirsi, a vicenda.
2. Creare condizioni virtuose
Il modo standard, meccanicistico, di affrontare una sfida o un problema è aggredendoli, per indebolirli o rimuoverli del tutto. Occorre invece individuare e lavorare sulle reali cause per creare le condizioni che producono effetti diversi. Il focus va spostato dal risultato (effetto) al processo (causa).
3. Coinvolgere tutte le parti in causa
Le risorse, umane e non, di un’azienda non sono lì per caso: assolvono uno scopo preciso. Non vanno quindi confinate all’interno di un compito o di un incarico, ma potenziate, e questo lo si fa sia con la formazione sia facendole sentire parte integrante di uno straordinario processo evolutivo. Lavorare sullo sviluppo di una relazione più solida non è soltanto un’esigenza psicologica, ma una precisa priorità sistemica.
4. Lasciare il controllo alle dinamiche
Va accettata l’idea che nessuno ha alcun controllo su chi- o checchessia. I sistemi sono governati da dinamiche che non possiamo cambiare, ma che possiamo imparare a conoscere ed a lavorarci su. Comprendere la natura dei sistemi ed agire in conformità ad essa è il solo modo sostenibile per assumere un autentico controllo che riduce crisi e conflitti.
5. Sviluppare una forte identità
Non stiamo parlando di branding inteso come l’ennesima trovata per promuovere l’azienda, ma di prendere coscienza del valore generato, derivato non solo dal prodotto o servizio offerto, ma anche dai valori, gli scopi, le finalità, i tratti distintivi, il contributo, la relazione, ecc. che la rende assolutamente unica ed irripetibile. Questo produce ciò che potremmo definire una forma di autostima aziendale.
6. Puntare alla prosperità
Ancora oggi, il fattore economico di un’azienda è quasi il solo di cui un imprenditore tiene conto per valutarne la salute. Essendo questo un mero effetto, però, non potrà mai considerarsi un indice di reale benessere. La vera prosperità è invece legata ad un processo che tiene conto di tutte le componenti di un’azienda e di una cosiddetta cultura dell’Abbondanza, dove il focus è posto sul potenziale che essa può e deve ancora esprimere.
7. Godersi la “crociera”
Quando si va in vacanza, si pensa spesso al viaggio come uno scotto da pagare per godersi finalmente il soggiorno. In una crociera, però, il viaggio È la vacanza. Allo stesso modo, abituati come siamo ad apprezzare solo i risultati, viviamo il processo come una seccatura necessaria per raggiungere i nostri obiettivi. In realtà, proprio il processo è il vero obiettivo e va vissuto con fiducia e serenità.
E ora, scegli bene il tuo blocco di marmo e fanne un capolavoro!
Che cosa significa fare l’imprenditore? Partiamo con il dire che con questo termine viene definita una categoria professionale che spazia in un ampio ventaglio di posizioni: parte da un lavoratore a partita iva che avvia una propria attività produttiva di beni e/o servizi (impresa agricola, impresa artigiana o commerciale) fino ad arrivare al “capitano d’industria” affermato e che gode di uno status privilegiato, sia nel tipo di ruolo ricoperto che in termini economici.
In ambito generale, l'imprenditore è colui che possiede fattori produttivi (capitali, mezzi di produzione, forza lavoro e materie prime), attraverso i quali e unitamente agli investimenti diretti ed indiretti contribuisce a sviluppare nuovi prodotti, aprire nuovi mercati o creare rivoluzionari mezzi/attrezzature/servizi apportando innovazione per soddisfare le esigenze di altri.
Ma chi è l’imprenditore? Quali sono le caratteristiche di questo ruolo?
Per identificarlo è sufficiente delineare quattro elementi essenziali:
- deve essere un soggetto economico che ha una vision
- deve essere un soggetto economico orientato all’innovazione
- deve essere un soggetto economico che assume dei rischi
- deve essere un soggetto economico che prende decisioni
Rischiare, decidere ed innovare, queste sono le peculiarità che definiscono l’imprinting dell’imprenditore, che per sviluppare un’attività economica deve organizzare attorno alla propria idea imprenditoriale un sistema pensato ed organizzato in modo tale da poter raggiungere gli obiettivi prefissati, più o meno complessi.
L’imprenditore, infatti, è colui che è in grado di unire le varie risorse che ha a disposizione per dar vita ad un soggetto economico, l’azienda, per realizzare un prodotto e/o un servizio. La sua abilità sta nel pianificare e strutturare i processi produttivi, creando beni/servizi, in risposta ad una determinata domanda del mercato. Da ciò ricava un "valore aggiunto" che non è altro che il profitto con cui viene remunerato il suo lavoro.
In altri termini, l’impresa funziona se può garantire una differenza positiva accettata dal mercato fra ciò che viene prodotto ed il valore di mercato della somma dei fattori di produzione.
Guidare un’impresa significa, soprattutto, avere sempre lo sguardo proiettato al futuro; stabilire oggi quello che potrà richiedere il mercato domani e adeguare il proprio business in funzione delle nuove sfide. In queste condizioni la capacità di visione in primis ed il reperimento delle risorse in genere, unitamente alle tre caratteristiche dell’innovazione, dell’assunzione di rischi e del prendere decisioni, sono le abilità più importanti che consentono all’imprenditore di garantire il successo della sua impresa.
Il ruolo dell’imprenditore è, dunque, caratterizzato dalle capacità organizzative, necessarie per far fronte a problemi di pianificazione, e di programmazione di tutte quelle attività specifiche atte a garantire l’approvvigionamento e la continuità della filiera produttiva e commerciale.
Dalla capacità e velocità di reazione relativa ai quotidiani fabbisogni dell’azienda dipende, dunque, l’efficienza della stessa. Quindi, la risposta alla domanda iniziale, ovvero qual è il lavoro dell’imprenditore, è: trovare le opportune soluzioni alle continue esigenze del proprio business!
Qui si apre un nuovo scenario, dove l’imprenditore, non potendo contare su una cultura olistica e specialistica, si deve organizzare con un ufficio interno di ricerca (e sviluppo per la parte relativa all’innovazione) oppure investire molto del proprio tempo a disposizione per individuare e reperire i soggetti idonei a soddisfare i propri fabbisogni.
Ma quanto costa quel tempo investito nella ricerca? Chi garantisce che il nuovo potenziale fornitore sia veramente all’altezza di soddisfare le necessità evidenziate? Chi assicura che la soluzione individuata sia risolutiva anziché palliativa?
In realtà l’imprenditore è “un uomo solo al comando”, che, come già detto, deve trovare soluzioni, prendere decisioni e rischiare; deve soprattutto individuare sempre nuove opportunità per tenere la propria azienda allineata con il progresso tecnologico, sviluppando innovazione di prodotto ma ancor più innovazione nei processi produttivi e/o dei servizi.
Per agevolare questa mansione, a supporto quindi dell’attività imprenditoriale, ci vorrebbe un Problem Solver, cioè un professionista pluri-disciplinare, quindi specializzato in molte materie, in grado di individuare soluzioni mirate a singole esigenze aziendali. Questa forma di consulenza, poiché proposta da sedicenti “tuttologi”, ovvero dei consulenti con competenze multi-settoriali in grado di fare consulenza (intesa come vendita di soluzioni) senza una preparazione specifica approfondita, nella maggior parte dei casi fallisce miseramente, lasciando una scia intrisa di difficoltà e danni a scapito delle aziende.
La soluzione del “tuttologo”, al di là della sua inconcludenza, si scontra violentemente con le esigenze del mercato che richiedono soluzioni altamente specialistiche, peraltro trovate in tempi rapidi, poiché anche il fattore temporale, ossia la velocità di risposta, gioca un ruolo determinante.
E allora che fare?
Un’attività determinante per sviluppo di un’azienda, che può dare un vero supporto operativo al lavoro dell’imprenditore è svolta da Bartners, un partner strutturato per fornire soluzioni personalizzate in tutti i segmenti merceologici a seconda delle esigenze, in particolare in ambito commerciale, tecnologico e finanziario.
Le competenze di Bartners consentono di trovare le più disparate soluzioni attraverso un sistema di relazioni con aziende qualificate e referenziate, tutte distintamente identificate per le caratteristiche e le peculiarità di risposta ai vari fabbisogni. Inoltre, la struttura stessa di Bartners permette di agevolare la nascita di nuove collaborazioni professionali abbattendo le barriere di comunicazione e fiducia, poiché tramite figure professionali dedicate accompagna l’avvio di ogni singolo rapporto per garantirne la serietà, l’affidabilità, nonché la sostenibilità del nuovo rapporto generato.
Con Bartners, finalmente, l’imprenditore non è più solo con i suoi problemi ma può contare su una collaborazione strutturata e cointeressata al raggiungimento dei propri obiettivi.